Tina Anselmi - Archivio Ansa
(Non) ci voleva il covid– 19 per costringere una repubblica impaurita, senza memoria e senza padri, a ricordarsi d’aver avuto, tra le altre, una madre come Tina Anselmi (1927– 2016). Sì, la partigiana “Gabriella”, dal 1944 iscritta alla Democrazia cristiana. La sindacalista attentissima alla condizione femminile. La deputata (1968–1992) e la prima donna ministro (1976) in Italia. La presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 (1981–1984). Soprattutto, il ministro della Sanità grazie alla cui “ferma determinazione” – così l’8 marzo 2018 il presidente Mattarella – il 23 dicembre 1978 nacque il Servizio sanitario nazionale. Tributi sinceri, ma forse tardivi verso una donna tutta d’un pezzo, non manovrabile (furono i colleghi a soprannominarla “Tina vagante”), amica della Iotti e di Pertini, ma ai tempi della Commissione P2 ostacolata da fuori e da dentro il suo partito, che alla fine la mise cinicamente da parte. E nel 2004, addirittura schernita da chi redasse la voce a lei dedicata nel volume Italiane, con un livore di riporto le cui ragioni porterebbero lontano. Peraltro, dietro alla firma della Anselmi sulla legge 833/1978 si possono intravedere i diversi tempi della storia unitaria del nostro Paese.
Il trapassato remoto dell’Italia liberale falcidiata dalle malattie infettive, a cui il 22 dicembre 1888 Francesco Crispi, insieme all’igienista Luigi Pagliani, diede la prima legge Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica. Il passato remoto dell’Italia giolittiana e fascista, che nel Testo unico delle leggi sanitarie (uscito nel 1907 e rivisto nel 1934) lasciò più o meno invariata l’ossatura piramidale della Crispi–Pagliani, dal vertice (la Direzione generale e il Consiglio superiore di sanità) alla base (i medici condotti o ufficiali sanitari a capo degli istituti comunali d’igiene), consegnandola nel 1945 all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. Poi, dopo la grande tragedia, il passato prossimo, la Costituzione, articolo 32: «La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti ». È una norma così rivoluzionaria che l’Italia, prima a riconoscerla in Europa, aspetta trent’anni per applicarla. Infine, c’è il presente. Cioè gli anni Settanta, in cui – settima legislatura (1976–1979), governi Andreotti III, IV e V – si concentra l’attività ministeriale della Anselmi. Certo, sono gli Anni di piombo, ma anche di altro. Ad esempio, dallo Statuto dei lavoratori in avanti, il decennio delle più grandi conquiste sindacali che la storia della repubblica ricordi.
In questo senso, nel 1977, quasi a suggello d’un lungo impegno politico–sindacale, è il ministro del lavoro e della previdenza sociale del governo Andreotti III, Tina Anselmi, a firmare la legge 903 sulla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Oppure, gli anni Settanta sono il decennio delle riforme sociali, del divorzio, del nuovo diritto di famiglia, dell’aborto legale. E nel 1978 la Anselmi, che da deputata ha votato contro il progetto di legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, da ministro della Sanità del governo Andreotti IV ne firma il testo, mostrando a tutti cosa significhi il termine “laicità dello Stato”. E nello stesso anno sua è la firma sulla legge in merito agli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, meglio conosciuta come legge Basaglia. Infine, sempre nel 1978, la Anselmi affronta la riforma della Sanità. È una legge divenuta indifferibile non solo di fronte alla crisi finanziaria delle mutue, le vecchie assicurazioni sanitarie di categoria (che lo stato scioglie, accollandosene i debiti) ma anche alla sfida dell’effettiva attuazione dell’articolo 32 della Costituzione. Anzi, è una riforma voluta perché, tramite i suoi principi cardine (la globalità delle prestazioni, l’universalità dei destinatari e l’uguaglianza del trattamento) il sistema ne garantisca il più importante: la tutela della dignità e della libertà della persona.
Per più d’una ragione, arrivare alla creazione del Ssn non è semplice. Ad esempio, perché la riforma tocca grossi interessi di potere e di pecunia, e perciò suscita più d’una opposizione da parte degli enti sanitari privati. Ma anche perché, scomparso Moro e in fase discendente la parabola della solidarietà nazionale, a più d’un membro della Dc la riforma pare il frutto d’una eccessiva collaborazione con i comunisti, pronti a essere rispediti nel campo dell’opposizione a vita. In ogni caso ha ragione il medico e deputato Dc Bruno Orsini, quando durante la discussione della legge afferma che l’istituzione del Ssn è «il punto di arrivo di un lungo processo e il punto di partenza per un lungo, difficile, ulteriore cammino». Quello verso il futuro, cioè verso di noi. D’altronde oggi, a quarantadue anni e svariati ritocchi di distanza, quella riforma – nata da un accordo tra avversari capaci di parlarsi in nome d’un antico patto – si mostra per quello che è: una tra quelle più capaci di incidere sulla società italiana. Nessuna mitizzazione, ma è pur sempre vero che, sottoposto agli assalti del covid–19, il sistema ha retto con una capacità superiore alle attese, ivi inclusi esempi di altissimo valore umano, medico e civile. E tutto ciò nonostante i tagli – o gli investimenti in calo: il litigio è aperto – del quindicennio precedente. Ecco un argomento da mettere a tema fin d’ora, senza rinviarlo a un dopo che avrà già la sua pena. D’altra parte, questi giorni hanno allo stesso tempo mostrato le fragilità del sistema e la necessità di riformarlo, a livello di finanziamento e di struttura, mettendolo in grado d’affrontare i bisogni d’una popolazione sempre più vecchia o stati d’emergenza come quello presente. In questo senso, vale ancora l’antico avvertimento della Anselmi secondo cui «le conquiste raggiunte non sono mai per sempre ». A chi resta il compito di rafforzarle o di distruggerle