domenica 2 giugno 2024
Il filosofo: «È sempre più difficile per il credente vivere in una società secolarizzata come l’attuale»
Il filosofo Roberto Timossi

Il filosofo Roberto Timossi - archivio

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Da diverse settimane “Avvenire” sta sviluppando un dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato dagl i interventi di PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto e al quale hanno poi partecipato Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici ,Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini e Vigini. QUI la raccolta completa.

«È sempre più difficile per il credente vivere in una società secolarizzata come l’attuale, nella quale una certa interpretazione della scienza sembra escludere non solo l’ammissibilità razionale della scelta religiosa, ma l’esistenza stessa di Dio». Con queste frasi inizia un mio saggio di qualche anno fa ( Perché crediamo in Dio. Le ragioni della fede cristiana nel mondo contemporaneo San Paolo) e non pochi lettori credenti mi hanno riferito di essere rimasti di primo acchito sconcertati da un incipit tanto diretto e “crudo”; ma poi tutti hanno ammesso che le cose stanno effettivamente così e che era inutile far finta di non saperlo. Il pensiero cattolico ha sempre cercato di conciliare la Rivelazione con la ragione, pertanto ora non si può non accorgersi che la mentalità scientifica e tecnologica dominante tende a relegare le convinzioni di fede nel limbo dell’irrazionalità, dei puri sentimenti soggettivi. E non si pensi che questo fatto riguardi soltanto le élite intellettuali o le persone adulte acculturate, perché è capitato a un sacerdote di sentirsi dire da un ragazzo della prima comunione: « Don, Dio non esiste: l’uomo viene dall’evoluzione e il mondo è nato dal Big Bang». Negli incontri pubblici che mi capita di fare per conferenze o presentazioni delle mie pubblicazioni, e ai quali sempre partecipano sia credenti sia non credenti, si percepisce nei cattolici presenti tutto il disagio di doversi confrontare con una visione del mondo tanto distante dalla loro forma mentis frutto di letture che si trovano quasi esclusivamente nelle librerie religiose. Non si può dunque negare che la cultura cattolica con l’avvento della “modernità” tanto in filosofia quanto nelle scienze ha teso sempre più a sentirsi isolata e per molti versi ad autoisolarsi nel proprio confortevole “piccolo mondo” rappresentato dai centri di base della formazione cattolica, ovvero dai seminari, dalle facoltà teologiche, dagli istituti di scienze religiose, dagli insegnamenti catechistici e altro ancora. Per rendersene conto basta scorrere le materie di insegnamento di tali centri formativi, che pur vantano eccellenti docenti. Esse risultano molto ricche di corsi di teologia, esegesi, storia della filosofia, metafisica, etica e lingue classiche e semitiche, ma poverissime in storia della scienza, filosofia della scienza e logica contemporanea. E laddove si trovano insegnamenti di epistemologia e filosofia della natura, si tende a seguire l’impostazione tomista che dal punto di vista scientifico è ferma alla scienza aristotelica. Naturalmente questo scenario si riflette sull’editoria cattolica che, come è stato ben illustrato nel dibattito su Avvenire, rimane precipuamente parenetica, devozionale, teologica ed esegetica. Orbene, con parresia va detto che se la cultura cattolica vuole uscire dall’isolamento deve in primo luogo “fare i conti” con i modi di pensare e di vivere del XXI secolo, che sono indiscutibilmente determinati da un lato da un naturalismo filosofico di fondo (esistono soltanto gli enti delle scienze della natura e l’individuo è libero di disporre di sé stesso come meglio ritiene) e dall’altro dalla “visione scientifica del mondo” con tutte le sue ricadute tecnologiche. Se non si affronta a viso aperto la realtà che ci circonda e non ci si attrezza per confrontarsi adeguatamente con essa, il rischio incombente è di non riuscire più a comunicare in maniera persuasiva il messaggio evangelico. È infatti anche una questione di linguaggio, che occorre adattare alla contemporaneità, soprattutto negli istituti formativi cattolici, altrimenti rimane in un lessico per iniziati, come ho sentito affermare con schiettezza da un docente universitario laico dopo l’intervento di un professore di teologia di un’università pontificia. Credere è del resto sempre anche una questione di inculturazione, come aveva ben presente Agostino d’Ippona quando faticava a convertirsi perché riteneva troppo barbare le Sacre Scritture per la sua cultura classica. E l’ultima cosa da fare è di seguire quella corrente rabbinica novecentesca che invitava a «credere nonostante», ossia ad avere fede chiudendo gli occhi di fronte alle sfide poste dalla cultura del nostro tempo.

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