Giovanni Testori
Il libro di Luca Doninelli, Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro, pubblicato da La nave di Teseo (pagine 128, euro 12,00), non è solo un tributo a uno dei più importanti scrittori e drammaturghi del secondo Novecento italiano. Intanto –per cominciare col dato meno ovvio – perché si tratta anche d’un dissimulato e rapsodico manifesto di poetica: basterebbe pensare a quella paginetta in cui Doninelli, parlando dell’idea da cui è germinato il suo romanzo I due fratelli (1990), ricorda come questa gli provenisse da una certa idea di Novecento, l’idea d’un secolo «fatto di due metà completamente diverse», formulata in una lezione al liceo scientifico. Poi per il fatto che siamo di fronte a un capitolo d’autobiografia, entro cui s’accampano figure di amici e sodali: mi limito a citare, puro esempio d’umana soavità e dedizione, Emanuele Banterle, precocemente scomparso nel 2011, il quale fondò con Testori nel 1983 la Compagnia del Teatro degli Incamminati, con lo scopo di mettersi a disposizione come regista, insieme a un gruppo d’attori, per rappresentare le opere del Maestro.
Già, il Maestro, i Maestri: in un’epoca che – a partire dal ’68, fino alle violente recrudescenze del 1977, i Maestri aveva decapitato. Perché il libro di Doninelli, attraverso, il ritratto di Testori, è soprattutto questo: una riflessione su una figura ormai estinta, sulla sua speciale natura e sul suo significato, sulle sue condizioni di possibilità in una stagione di conclamato nichilismo, ove «la continuità della cultura […] era affidata quasi totalmente (e lo sarebbe stato ancora per tanti anni) alla prossimità ideologica ».
Ecco: «A differenza degli altri intellettuali, in genere molto restii (e a ragione) a comunicare qualcosa alle nuove generazioni, Giovanni si donò con una generosità straordinaria ai giovani e si può ben dire che il suo studio fosse diventato una scuola». E più avanti: «Sembrava immune a qualsiasi ombra di nichilismo, e nessuno meglio di lui possedeva le ragioni per combatterlo». Di qui: la pre- ferenza per Céline rispetto a Proust; l’amore per Manzoni e l’insofferenza per Leopardi; la passione per Tasso e l’indifferenza per il letteratissimo Ariosto, esattamente la stessa che riservava all’ariostesco Italo Calvino. Doninelli ne è convinto: «Non è detto che il discepolo capisca il maestro meglio di altri che non sono suoi discepoli ».
Dove sta, allora, il tratto specifico di questo rapporto speciale? Nel «tipo di interlocuzione»: indubitabilmente. Che cosa fa, infatti, un Maestro? Intanto, chiedere sempre all’allievo quel che non sa fare e non ciò che già sa fare. In un nemmeno dissimulato tentativo di distruggerlo: «Mi ero svuotato? Benissimo. Mi sentivo come un bidone vuoto? Benissimo. Così dovevo sentirmi ». Testori, insomma, voleva essere scandaloso – non risparmiandosi, per altro, egocentrismo, volubilità, snobismo «a volte crudele», puerilità, fastidioso moralismo – anche nell’esercizio del suo magistero.
Siamo al punto cruciale: lo scandalo. Doninelli sta parlando della prima teatrale fiorentina di In Exitu, voluta da Franco Branciaroli, il quale aveva fiutato le possibilità drammaturgiche del romanzo, ovvero «la storia di un giovane morto di overdose nella Stazione Centrale di Milano, raccontata dal medesimo come una specie di via crucis». Si trattò – aggiunge Doninelli – d’«un doppio shock» e d’una serata assai movimentata, in quanto, per la mancata sostituzione dei cartelloni precedenti, il pubblico era convinto di andare a vedere un allestimento dell’Amleto, ma si ritrovò davanti un Branciaroli «appoggiato a una parete, a farfugliare mozziconi di parole come chi, in mezzo al vomito, sta per morire di droga».
Chiosa Doninelli: «A Giovanni gli scandali piacevano molto, e quella notte fu una delle più belle della sua vita. Uno scandalo somiglia stranamente a un’elezione divina, e ha il potere di prolungare la gioventù di un uomo». D’altro canto, Testori aveva fatto di quei deragliamenti, di tutta la miseria di cui un uomo era capace, «il nutrimento più genuino – non dico l’unico, ma il più inequivocabile – di un artista». E lo ripeteva spesso: «Un artista si misura, disse, dalle sue cadute». Ecco, «la carne», «luogo di perdizione » e, insieme, «di salvezza»: uno dei temi fondamentali della sua vicenda di uomo e artista, e che fanno di Testori, secondo Doninelli, l’intellettuale italiano più vicino a Pasolini, colui che, dopo la sua morte, ne ha saputo ricalcare meglio le orme.
Quel tema, s’aggiunga, che gli veniva rimproverato «un po’ a tutte le latitudini culturali» e che «gli alienò le simpatie generali», fatta eccezione per «alcune sacche di resistenza a oltranza», in cui si collocavano, appunto, i suoi allievi e gli amici più stretti. Doninelli prova a sottolineare, di tale posizione, la coerenza cristiana: «Il cristianesimo era entrato così profondamente in lui da rendergli insopportabile qualunque “verità” che non si radicasse nella carne». E ancora: «La profondità della sua immedesimazione con la persona di Cristo glielo rendeva poi comunicabile senza nessun moralismo, senza precetti». Infine: «Dire l’amore, anche il più scandaloso, era non solo lecito, ma addirittura un compito dello scrittore e dell’artista, che non esistevano per nessun’altra ragione che questa». Perché l’amore era tutto, e tutt’uno con la sua oscenità: non lascia mai in pace. E si traduceva sempre, in Testori, nella necessità etica di «mettersi a nudo».
Man mano che il libro procede, e il magistero di Testori ha modo di esplicarsi in tutte le sue ragioni profonde, quel che salta agli occhi del lettore è la divaricazione caratteriale e letteraria tra Maestro e discepolo, diversi in tutto, se così si può dire. Fatto salvo in un aspetto determinante, tale da autorizzare per sempre quella che Doninelli, appunto, chiama «gratitudine senza debiti», e da collocarli in un solco di assoluta continuità. Questo: il comune senso d’una «non appartenenza radicale».