Roberto Palpacelli, 50 anni il 5 giugno, genio e sregolatezza del tennis italiano - Archivio
La lettura di questa storia è consigliata a tutti i moralisti, a tutti quelli che non sono mai caduti nella loro vita o che sono convinti che non passeranno mai una sola stagione all’inferno, proprio in virtù della loro presunta specchiata moralità. È la storia di Roberto Palpacelli, detto il Palpa, la più grande promessa non mantenuta del tennis italiano, anni ’80-’90. Una storia struggente, ma anche di speranza, che Federico Ferrero (voce del tennis di Eurosport) ha ricostruito di pancia grazie allo stesso Palpacelli che gli ha concesso di entrare nelle segreta del suo cuore, e ne è uscito con “Il Palpa”. Il più forte di tutti (Rizzoli. Pagine 220. Euro 18,00). Libro pubblicato nel 2019, ristampato alla soglia dell’emergenza Coronavirus e diventato oggetto di culto per quelli che del tennis e di umanità si intendono. Autobiografia assai più vera e credibile del maggior bestseller sportivo degli ultimi anni, ovvero Open la vita, le imprese e i dolori del giovane Andre Agassi, narrata in “doppio” con il premio Pulitzer J. R. Moehringer. L’ex n.1 del mondo Agassi è un coscritto del Palpa, classe 1970, che il prossimo 5 giugno compirà il mezzo secolo di questa esistenza vissuta da sempre in acrobatico equilibrio sopra alla follia. Una vita spericolata, a prescindere dall’aver guidato ed essersi schiantato con la stessa moto del giovane Vasco Rossi. Un viaggio al termine della notte, lottando contro gli spiriti dannati e un “mostro” interiore che non gli ha mai concesso di rifiatare, e tanto meno di strappare un solo game al male di vivere. Miserie e splendori di una leggenda metropolitana, tipo: «Che avrei battuto Boris Becker una, anzi tre volte. Mai incontrato Becker… Se ho incrociato il passo una volta o due, con il tennis vero, è stato poco più che un caso», confida a Ferrero. Umile atto di dolore dell’ex ragazzino terribile del tennis italiano che ha continuamente sfidato il destino, e al posto di una spada per uccidere i suoi demoni ha sguainato la racchetta. «Senza il tennis, ora sarei morto. Come quasi tutti gli amici che ho incontrato per strada, e che prima o dopo hanno pagato i loro sbagli e le loro debolezze».
Il Palpa, l’amico fragile degli ultimi, degli emarginati di quella società “bucata” degli anni ’80 era venuto al mondo essenzialmente per fare sport. Figlio d’arte dell’anconetano Giovanni “Cecio” Palpacelli, ala destra del Cosenza in serie C, scappato dal ritiro per sposare Franca Basti, signora elegante di una Pescara bene che ha visto nascere e crescere il piccolo Roberto. A cinque anni, il terzo dei Palpacelli, arrivato dopo le sorelle Paola e Tiziana, fa il suo ingresso al circolo tennis del maestro Giancarlo Iezzi. Racchetta in mano si muove come un puntino agile sul campo: lo chiamano “Virgola” ma «quando perdeva la calma, si trasfigurava in Punto Esclamativo». E questi sbalzi umorali, anzi pericolosi attacchi d’ira, si manifestano precocemente quanto il suo talento ubiquo: sbaraglia la concorrenza dei coetanei sulla terra rossa, così come incanta con il suo mancino naturale su un campo di pallone. Fa la differenza nelle giovanili della Renato Curi, ma il genio si esprime con la racchetta che diventa bacchetta magica da cui esce la prodigiosa e strisciante “biscia”: «Una rasoiata di dritto, giocata da fondocampo, che lì per lì sembrava essere una palla corta, invece partiva secca dall’incordatura con il taglio dall’alto verso il basso e moriva dopo il rimbalzo, facendo impazzire gli avversari».
Magia e incantesimo ferale, ma l’unico avversario invincibile per il Palpa è stato solamente se stesso. La sua parabola “artistica” di bello e dannato sarebbe tanto piaciuta a Pier Vittorio Tondelli: gli avrebbe ispirato qualche pagina psichedelica di Un weekend postmoderno, mettendolo al fianco delle tavole disegnate da quel “Michelangelo dei fumetti” che è stato Andrea Pazienza. Affinità elettiva con il Palpa e strade che si incrociano con il Paz che nasce a San Benedetto del Tronto (nel 1956) e va a studiare a Pescara, ma ogni fine settimana Pazienza tornava a San Severo (Foggia), il paese paterno dove vivevano gli amici di sempre. È ciò che ha fatto anche il giovanissimo Roberto che ha pianto quando ha dovuto lasciare Pescara perché il padre bancario era stato trasferito nella filiale della gelida L’Aquila, e lui è tornato a sentirsi vivo solo quando ha respirato nuovamente l’aria calda del mare dal circolo tennis Maggioni di San Benedetto. Quel luogo è da sempre il suo centro di gravità permanente ma anche l’abisso in cui è sprofondato per inseguire le allucinazioni dei “rotonderos”. I falchi della notte della Rotonda Giorgini, la gioventù bruciata dalle droghe e dall’alcol che hanno marchiato a fuoco anche l’anima mai salva di Palpacelli. Il ragazzino della borghesia che con il suo borsone da tennis dopo gli allenamenti sfilava davanti a quella banda capeggiata da “Lu Bom”, uno “Zanardi” da centoventi chili, capo dei raid ultrà della Curva della Sambenedettese e fulcro dello spaccio della Rotonda. «Negli anni ’80 San Benedetto, dopo Verona, era considerata la città più tossica d’Italia», ricorda il Palpa che adesso si accontenta di un paio di pacchetti di Marlboro tenute nella tasca della sua seconda pelle, la tuta. Un triste primato quello della San Benedetto delle menti perdute, al quale il Palpa collaborava con una dipendenza che lo portava a scolarsi bottiglie di birra prima di un match «che poi vincevo puntualmente». Dai cocktail delle sbronze in allegria al buco solitario in vena dei succhi di eroina, il passo fu assai più breve e veloce dei movimenti con i piedi da «gatto» che gli aveva insegnato il prof. Carlo Vittori, il maestro di Pietro Mennea.
Il suo autolesionismo gli fece perdere la chance di restare nel clan azzurro della Nazionale giovanile. E a nulla valsero gli accorati appelli dei suoi idoli di gioventù, Adriano Panatta e Paolo Bertolucci che lo avrebbero legato pur di tenerlo ostaggio nella loro scuola. Ma le mille luci di Roma, così come i fari puntati di quell’accademia che considerava «un lager» lo misero in fuga dal professionismo. Fughe per la vittoria impugnando la “Donnay” di Agassi, l’attrezzo con cui avrebbe potuto conquistare il mondo grazie a un braccio d’oro e i colpi a sorpresa quanto un Henry Leconte (irregolare, ma n.5 del mondo nel 1986) di provincia su un fisico scolpito dai muscoli del “Superman”. «Il talento è timido», sostiene la grande Franca Valeri, ma quello del Palpa sconfina nella solitudine del potenziale numero uno. «Il tennis è lo sport perfetto per i solitari, per chi vuole mostrare il proprio talento senza freni », sostiene lo sfrenato, il più folle della sua generazione di piccoli fenomeni. «Diego Nargiso ha detto che in campo lui era pazzo al 30%, Paolo Canè al 50%, Palpacelli sempre – sottolinea Federico Ferrero – . Eppure Roberto aveva tutto per entrare comodamente tra i primi 100 del mondo, e da lì in poi se la sarebbe potuta giocare alla grande». Spenti i riflettori, più di una volta ha varcato per qualche attimo la porta del mondo dei più ed è tornato sulla terra solo grazie al salvataggio delle iniezioni di adrenalina e le spremute d’amore della sua famiglia. Il Palpa randagio, senza tetto, abbandonato e dimenticato dal mondo snob dei gesti bianchi, è entrato e uscito dalle comunità di recupero, e tutte le volte l’hanno visto riscendere in campo sempre più forte e vincente. A 42 anni, con la solita scorta di birra, anfetamine e sigarette, nei tornei di serie B in una stagione vinse tutti gli incontri perdendo un solo set. Il piccolo Tc di Mosciano (Teramo) ingaggiandolo, in tre anni è passato dalla C alla serie A. Campi distanti dal limo stellare del Roland Garros o dall’erba regale di Wimbledon, quelli calcati con successo dall’ultimo “nevroromantico” del tennis italico, Paolo Canè. Il “NeuroCanè” ha incrociato e battuto l’irregolarissimo Palpa in un match memorabile del campionato over. Quel giorno a Recanati mancava solo il genius loci di Giacomo Leopardi: dagli spalti alla collina si erano assiepati 4mila spettatori per assistere al certamentennistico tra i due poeti maledetti. Ma mentre Canè, ex poeta laureato del tennis, oggi è un papà pacificato e l’amabile maestro della scuola di Gorle (Bergamo), Palpacelli è rimasto il poeta più rimpianto dai suoi allenatori e il più citato dagli appassionati nei bar sport dei circoli della provincia abruzzese e marchigiana. Anche il Palpa come Canè, tenta l’ace vitale con la seconda battuta. Con Enza ha avuto il piccolo Andrea, non coltiva rimpianti per i montepremi persi, né per le classifiche mai scalate e non è pentito per non aver mai preso il patentino da maestro, perché comunque gioca ancora, ogni giorno, per insegnare questo sport a qualche talento di un circolo di Pescara. «La mia colpa... – confessa a Ferrero tra le nebbie di fumo dell’ultima sigaretta di giornata – Non essermi fatto bastare quello che avevo». Ed era tanto. Ma per il Palpa la vita è stata un «correre a tutta velocità, camminare sull’orlo del precipizio e guardare il vuoto sotto di te. Ti fa sentire vivo, ti fa sentire immortale».