«I massacri del "Grande Terrore" staliniano, nel biennio 1937-1938, non costituirono forse un genocidio in senso tecnico, almeno secondo la definizione restrittiva che di questo termine avrebbe dato l’Onu, a causa in parte delle pressioni della stessa Unione Sovietica. Ma si può probabilmente dire che ci fu un’azione genocidaria almeno verso il clero». Il giudizio è formulato dallo storico francese Nicolas Werth, di madrelingua russa, fra i maggiori specialisti internazionali della violenza politica nell’ex mondo sovietico. L’importante saggio
Nemici del Popolo. Autopsia di un assassinio di massa, che esce in Italia domani in libreria (il Mulino, pagine 298, euro 26), è nato dopo lunghe ricerche pionieristiche negli archivi sovietici.
Professor Werth, quale approccio ha scelto per indagare sul culmine delle repressioni staliniane?«Molti studi classici sul periodo 1937-1938 hanno posto l’accento sulle purghe all’interno del partito. Personalmente, ho scelto di concentrarmi sul volto più nascosto del Grande Terrore, ovvero le grandi operazioni segrete di massa. Si trattò di una vastissima opera d’ingegneria sociale perseguita in modo molto centralizzato. In appena 16 mesi, furono arrestate un milione e mezzo di persone e ci furono circa 800 mila esecuzioni».
Fino a che punto l’apertura degli archivi è stata decisiva?«Ha permesso soprattutto di comprendere che si trattò di un autentico processo di ’pulizia profilattica’ dell’intera società, non solo di certe élite. Ciò rappresentò il culmine radicale di una serie di misure già prese fin dall’epoca di Lenin. Occorreva purificare il mondo sovietico da qualsiasi oppositore reale o potenziale del pensiero unico e della nuova società integrata».
Lei si sofferma sulla sorte di un comune ferroviere ubriaco giustiziato dal sistema come terrorista. Un caso esemplare?«Sì, perché illustra che lo scopo principale della macchina repressiva divenne presto quello di raggiungere a ogni costo le quote di arresti date alle regioni. La polizia ordinaria e quella politica finirono per bersagliare quasi a caso i primi malcapitati. Occorreva trovare dei colpevoli a ogni costo. Un caso di ubriachezza molesta poteva essere così trasformato in pochi giorni in flagrante terrorismo».
Chi decideva queste quote?«Stalin decideva il lancio delle operazioni, mentre i numeri erano comunicati dai dirigenti regionali a partire dai casellari di individui sospetti. Il punto chiave è la dinamica perversa innescata dalla pressione di Stalin e di Ezov, il capo della polizia politica. Molti responsabili locali cercarono di anticipare le richieste dei propri superiori, perché il rischio in caso di risultati insufficienti era di venire arrestati».
I responsabili locali modificarono spesso le cifre reali. A quale scopo?«Purtroppo, quasi mai per risparmiare delle vite, anche se ci furono casi isolati di reticenze. In genere, le operazioni finivano con un eccesso di arresti rispetto al previsto e non il contrario. I ritocchi di cifre avvennero soprattutto sull’origine sociale degli arrestati, per farla quadrare con le richieste centrali».
Per il regime, quali erano i bersagli prioritari?«Innanzitutto, il clero. Il 90% degli ecclesiastici furono arrestati e giustiziati. Occorre poi citare gli ex membri del Partito socialista rivoluzionario, i trotskisti, principali concorrenti dei bolscevichi. Furono colpiti in gran numero anche i delinquenti ordinari o gli emarginati, definiti genericamente come ’asociali’, una categoria che ricorda quella analoga nazista. Vi è poi la cosiddetta ’gente del passato’, ciò che restava delle élite dell’epoca zarista, i funzionari o gli ex ufficiali, tutti già schedati. Nel mirino, finirono pure i kulaki, i contadini contrari alla collettivizzazione, già spesso deportati. Ci fu inoltre una pulizia etnica contro le comunità di origine straniera, come i polacchi, soprattutto nelle regioni di frontiera. Evocando i venti di guerra già presenti in Europa, Stalin riuscì a presentare tutte queste categorie come membri potenziali di una "quinta colonna" di nemici, spie, insubordinati».
Si può parlare di un vero tentativo di sterminio totale del clero?«Fu proprio così. Diversi testi mostrano questa volontà di farla finita una volta per tutte con gli ecclesiastici. Anche per questo è paradossale notare che negli anni successivi della Seconda guerra mondiale, la ’guerra patriottica’ della propaganda, Stalin cercherà di strumentalizzare il 10% del clero restante e di attirarlo nella propria orbita».
Come maturò questa recrudescenza radicale della repressione contro il clero?«Stalin rimase molto colpito dal risultato del censimento del 1937, durante il quale il 57% della popolazione si professò credente. Non si può probabilmente dire che la Chiesa rappresentasse un pericolo diretto per il regime. Ma Stalin la percepì più che mai come l’ultima struttura organizzata autonoma rispetto alle logiche centrali».
La Russia di oggi ha voglia di rievocare questo passato?«Non si può dire che ci sia una cappa di piombo, ma al contempo si preferisce schivare questo tema. Nei manuali scolastici, non si dà molto risalto a queste pagine oscure. In generale, lo stalinismo viene valutato piuttosto positivamente e come una tappa importante della modernizzazione russa. Si tende a dimenticare il prezzo di questa sedicente modernizzazione».