giovedì 27 luglio 2017
«Sempre di più noi cosmonauti abbiamo bisogno della teologia per spiegarci il cosmo». A colloquio col russo Sergej Vasil’evic Avdeev
La Stazione spaziale internazionale

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«Credo ci sia qualcosa d’inspiegabile che governa tutte le cose. In sostanza penso che esista Dio! Sempre di più noi cosmonauti abbiamo bisogno della metafisica per capire ciò che accade nello spazio: quello che ci raccontano gli esperimenti che realizziamo in assenza di gravità. Noi scienziati, che andiamo ai limiti dell’universo e della vita, ricorriamo sempre più spesso a nozioni di teologia e filosofia per spiegarci il cosmo. Questa mia attenzione alla spiritualità si è sviluppata e accresciuta mentre ero nello spazio. Può sembrare strano per uno scienziato, ma non è così: è quello che ci riserva il futuro». Lo scienziato che parla di Dio, e dice che la ricerca di una entità superiore sarà il futuro dell’umanità, non è una persona qualunque. A prima vista Sergej Vasil’evic Avdeev è un ateo e razionalista a tutto tondo. Nato ai tempi dell’Unione Sovietica, nel 1956, quando «i comunisti mangiavano i bambini », è uno scienziato di primo livello della Federazione Russa, un eroe della Russia, ma soprattutto è l’uomo che è stato più a lungo nello spazio profondo. Infatti Avdeev ha camminato nelle gelide profondità dell’Universo per ben 42 ore e 2 minuti e vive nel futuro per un ventesimo di secondo, cioè è più giovane di noi che siamo rimasti a casa sulla terra, di un ventesimo di secondo. Un effetto delle sue passeggiate spaziali e delle lunghe permanenze in orbita: 747 giorni, 14 ore, 13 minuti e 9 secondi. Fino a qualche anno fa era anche l’uomo che era vissuto più a lungo in orbita, al momento è il quarto assoluto.

Come è diventato cosmonauta?

«È stata una scelta, anzi un sogno nato quando assistevo alle imprese del mio connazionale, Jurij Gagarin, eroe dell’Unione Sovietica. Lo guardavo in televisione e a me, che ero un ragazzo, sembrava impossibile che potesse essere vero. Ma quell’impresa mi affascinò al punto da studiare materie che mi avvicinassero a quel mondo. Anche se non pensavo che un giorno sarei davvero arrivato nello spazio».


Invece, mentre lavorava al progetto di un telescopio da utilizzare durante le missioni spaziali, Avdeev fu invitato a far parte del gruppo dei cosmonauti sovietici da parte dell’Agenzia spaziale del suo Paese. Era il 1987 e il suo addestramenti durò due anni. Da allora è stato mandato in orbita diverse volte fra il 1992 e il 1999, con le missioni Sojuz, dirette alla stazione spaziale Mir. Durante quei viaggi ha camminato per dieci volte nel vuoto dell’universo per un totale di un giorno, 18 ore e 2 minuti. Una scelta che cambiò radicalmente la sua vita.

«Fu una trasformazione profonda – racconta, durante una pausa del Festival della follia, Festbook, a Caserta –. Niente fu uguale a prima, dal punto di vista professionale, personale, emotivo. Anche fisicamente il mio corpo si è modificato stando nello spazio. Abbiamo scoperto che l’uomo non è fatto per lo spazio, per l’assenza di gravità: si ammala. È anche il motivo per cui adesso le missioni spaziali sono più brevi».

Che significa che il suo corpo si e’ modificato?

«Che la fisiologia umana cambia con la lunga permanenza nello spazio. I cosmonauti con lunghi periodi nell’universo sono studiati e monitorati anche per questo: per quello che possono insegnare sulle modificazioni del nostro Dna. Adesso non si rimane in orbita oltre i sei mesi, di regola».

Come ci si prepara a un viaggio spaziale?

«Ogni viaggio era sempre l’ultimo per me. Salutavo mia moglie, i figli, la mia famiglia, come se non dovessi tornare più. Una volta in orbita ci sono poi tante persone nuove che conosci, che entrano a far parte della tua sfera affettiva».

Com’è la vita su una stazione spaziale? È vero che gli astronauti russi mangiano speciali estratti vegetali in orbita?

«Mangiamo come tutti quanti gli altri astronauti. Paste, creme, una alimentazione tre stelle – e mentre lo dice, sorride –. In orbita la cosa più importante, oltre agli esperimenti scientifici, è fare esercizio fisico, ore e ore di ginnastica, per resistere all’assenza di gravità. Il momento più difficile è la partenza, lo strappo dalla Terra, il distacco dai tuoi affetti. In orbita sei concentrato esclusivamente sul tuo lavoro: nulla può distrarti. Un meccanismo che aiuta a non soffrire per la lontananza. Nello stesso tempo ti da forza il fatto che speri di ritornare a terra: pensi a far bene il tuo lavoro perché dovrai ritornare giù, pensi a casa».

Che cosa resta dopo una esperienza del genere?

«Lo spazio. Vivi tutto in modo amplificato, le percezioni sono più intense e più ricche. E senti, mentre cammini fuori dalla navicella, nel vuoto che ti dà un senso profondo di vertigine, che è proprio lì che volevi stare. Perché ciò che ti muove, che ti spinge ad arrivare lassù è una incontenibile voglia di conoscenza, la curiosità, il voler sapere e sperimentare in prima persona ciò che da ragazzo avevi creduto impossibile».

Perché lei è uscito così tante volte a passeggio nello spazio?

«È stato un caso. Tutti i cosmonauti sono preparati per passeggiare nello spazio profondo, ma poi quando si è su, capitano coincidenze, lavori imprevisti, che fanno si che solo pochi in realtà escano nel vuoto».

La cosa più bella vista dallo spazio?

«Il cielo».

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