Con un po’ d’impegno i brutti se la sono sempre cavata. Lavorando sulla simpatia hanno imparato a far breccia nel cuore altrui e, pur soffrendo talvolta della manchevolezza di madre natura, difficilmente hanno sfondato la soglia del disturbo mentale. Con il proprio corpo, nell’età della crescita, i ragazzi hanno sempre dovuto fare conti difficili; incalzati dall’ansia di piacere ai coetanei, hanno inseguito la bellezza come metodo di approccio, nella certezza che se si è belli si è automaticamente apprezzati e desiderati. Probabilmente anche amati. Ma da qualche tempo è la bruttezza, nelle sue molteplici variazioni, a monopolizzare i pensieri di un numero sempre maggiore di adolescenti. Non si tratta di piccoli segnali di una tendenza di costume, né di casi isolati ma di un allarme su un fenomeno in crescita preoccupante. Gustavo Pietropolli Charmet gli adolescenti li osserva e li ascolta da una vita. Il suo saggio intitolato La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo, appena pubblicato da Raffaello Cortina editore (pagine 150, euro 12) è un’indagine che ha a che fare con la relazione educativa e le istigazioni della sottocultura televisiva e pubblicitaria, attorno ai tormenti e alle mortificazioni che si infliggono quelli che a un certo punto della propria crescita decidono irragionevolmente, di essere impresentabili. Convinti di abitare un corpo più fragile o più massiccio di quello che hanno. Di essere brutti, perché così si sentono e si vedono, sebbene brutti non siano affatto. Anzi. Accorgersene non è semplice, perché, come spiega il professore mentre la bellezza si sfoggia, la bruttezza si cela. «Quel che vediamo sempre di più, però – prosegue – sono i ragazzi che presentano disturbi dell’alimentazione, obesi, anoressici, bulimici; quelli che disertano la scuola e si isolano in casa come eremiti in una dipendenza totale da Internet, quelli autolesionisti, che si tagliano, si scottano e si espongono a traumi violenti; quelli che usano sostanze o bevono fino a rischiare il coma etilico; quelli che si coprono di piercing e tatuaggi. C’è in tutto questo la drammatica novità di un vero e proprio attacco al corpo, ritenuto inadeguato per avere accesso e successo nelle relazioni di gruppo e di coppia. Qualcosa di cui vergognarsi, da punire e da modificare in tutti i modi». Sentirsi e rappresentarsi brutti, repellenti invece che attraenti, come ogni ingiustizia genera una sofferenza profonda, inconsolabile e muta, chiusa in un dolore silenzioso dove c’è posto solo per lo specchio, la bilancia e la propria immagine mentale. Tutto accresciuto, se possibile, dalla presenza nel mondo circostante di quelli baciati dalla bellezza o presunti tali, “tiratori scelti”, come li definisce il terapeuta, del giudizio di idoneità a frequentare le strade, la scuola, i bar, e i centri commerciali dove ogni giorno va in scena segretamente un mortificante concorso di bellezza. «È nel corpo che si deve andare a cercare l’origine del dolore mentale che l’adolescente esprime alterando le sue funzioni, esaltandolo, attaccandolo o esibendolo in modo spericolato», aggiunge il professore. Del resto la muta del corpo, impone a tutti gli adolescenti, anche a quelli più fortunati e competenti un lavorìo complicato per un decente debutto sociale: dal trucco all’affinamento del portamento e della mimica sociale, all’apprendimento di abilità, espressioni e stili di vita che segnalino la propria identità e determinino buoni rapporti. Ci vogliono tempo, impegno, allenamento e fortuna perché la trasformazione si completi alla giusta distanza dagli occhi dei genitori. Ai quali lo tsunami dell’adolescenza dei figli non dovrebbe impedire uno sforzo positivo nel sostenerne l’autostima e la capacità di osservarsi senza sensi di colpa e senza vergogna. Ma anche il modello educativo familiare, in questa società narcisista si è modificato. «Oggi – racconta Pietropolli Charmet – mette molto l’accento sulla realizzazione di sé, sulla valorizzazione della precocità sociale dei bambini. C’è un invito a sviluppare presto identità di genere, ad affermarsi in autonomia e a socializzare con successo, che va di pari passo con i miti della sottocultura narcisista mediatica, ossessivi nell’imporre di essere belli a tutti i costi. Nell’età della adolescenza questi mandati sono destinati a scontrarsi con la prepotente e crudele richiesta di affermazione e successo nella vita di gruppo. La conclusione naturale per un ragazzo può essere un senso di inadeguatezza mortificante a ciò che ci si aspetta da lui e dal suo corpo». È straziante l’enigma delle ragazze e dei ragazzi che contro ogni ragionevole dubbio continuano a mettere in atto pratiche dolorose quanto sconsiderate nel nutrire, affamare o pompare il proprio corpo percepito troppo magro, troppo grasso o troppo flaccido. Assecondando i codici imposti dall’ideale estetico vigente, verrebbe da dire. Eppure, l’ipotesi su cui il professor Pietropolli Charmet lavora da tempo prevede un capovolgimento del punto di vista. Che la bruttezza ricercata attivamente abbia a che fare con il tentativo di sottrarsi alle ingiunzioni ideali ad essere belli. Dunque in campo ci sarebbe la volontà di non piegarsi invece della rincorsa spasmodica e acritica al corpo perfetto e senza tempo. «Non potendo ma soprattutto non volendo essere belli, secondo i canoni correnti e convenzionali, questi ragazzi mettono in atto un lavorìo mostruoso sul corpo. Un complotto di morte verso se stessi».
Di una cosa il terapeuta è certo: che all’inizio della loro carriera si tratta di belle ragazze e bei ragazzi, addirittura in certi casi particolarmente attraenti, intelligenti e piacevoli. L’idea è che si tratti non di schiavi del sistema ma di ribelli e martiri del tentativo di rivendicare la propria disobbedienza allo strapotere della società del narcisismo e della bellezza standard. Il fatto che i ragazzi che hanno paura di essere brutti, brutti non siano – anzi, in genere sono persino carini, come è d’uso definirli – conferma la loro personale invenzione della bruttezza, coltivata e portata alle estreme conseguenze, attraverso una operazione di ribellione contro la tirannia delle autorità della bellezza. «Non ho mai conosciuto un’anoressica brutta - confessa il professore - se non abbruttita dalla propria condotta. Piuttosto mi sono chiesto, che infanzia hanno avuto gli adolescenti che si sentono brutti. Insieme abbiamo ricostruito le loro storie di bambini aiutati a sviluppare aspirazioni, talenti e vocazioni, spinti a essere se stessi, autentici e autonomi, ad avere successo. Piccoli coccolati e viziati incoraggiati a cercare la propria strada nella scuola, nello sport e nel gruppo, incitati a farsi valere con convinzione, a spendere al massimo i propri talenti, soprattutto dalla mamma».
Una mamma coinvolgente e complice nel farli collaborare e partecipare precocemente come adulti anche alla gestione delle relazioni, alle gioie e ai dolori della vita familiare. ma che nel contempo li ha esposti a una solitudine disastrosa e a un carico pesante di responsabilità che li ha portati a inevitabili fallimenti. Disastri che dal piano mentale si trasferiscono poi su quello corporeo. «In tema di bellezza – conclude Pietropolli Charmet – i genitori possono fare molto. Oggi invece il problema viene spesso sottovalutato, sdrammatizzato o troppo enfatizzato. Invece esiste e quasi mai è reale, quindi è inutile tenerlo sul piano dell’estetica chirurgica o della dieta. Occorre dargli un taglio educativo. Sarebbe importante che i genitori organizzassero una sorta di cordone sanitario attorno all’ambiente in cui si muovono i figli, per evitarne l’inquinamento dai modelli estetici eccessivi e consumistici, a basso tenore etico. Infine il corpo che cresce non dovrebbe essere di esclusiva competenza delle mamme. Lo sguardo di approvazione complessiva del padre – soprattutto per le bambine – è importante». Le facce dei genitori, come uno specchio educativo, possono rimandare ai figli un’immagine realistica di se stessi e rinforzare l’autostima capace di affrontare anche i giudizi più graffianti dei coetanei.