mercoledì 21 giugno 2023
A colloquio con lo scrittore di origini irachene che vive negli Stati Uniti. Il suo ultimo romanzo affronta il delicato tema dei danni collaterali causati dalla guerra
Sinan Antoon

Sinan Antoon - Ibtisam Azem / sinanantoon.com

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È un archivio sì, ma insieme un palinsesto. Perché l’ultimo romanzo di Sinan Antoon, scrittore, poeta e traduttore iracheno-americano, già vincitore del Best arab american book award nel 2014 e docente alla New York university, è un catalogo ragionato di tutto ciò che è stato distrutto dalla seconda guerra del Golfo del 2003, ma soprattutto è una stratificazione della memoria che, dal fondo più fondo del suo affresco originario, fa riemergere ciò che conta. E così svela la bellezza rimossa di una cultura contemporanea vividamente poetica. Sinan Antoon - ospite in questo Salone del libro per la casa editrice Hopefull Mon-ster, che ne pubblica , il romanzo L’archivio dei danni collaterali, tradotto da Adina Barbaro (pagine 244, euro 24,00) - ripercorre quel catalogo a vent’anni dalla guerra, trasponendo se stesso in visita a Baghdad nella figura di Namir, un irachenoamericano che ritorna dopo la giovinezza nella capitale sfigurata della Mesopotamia e si imbatte in Wadud, eccentrico libraio della famosa via al-Mutanabbi, dedicata al poeta iracheno più famoso. Wadud ha deciso di archiviare oggetti, edifici, libri, nomi di persone con precisione maniacale: in sostanza, cataloga tutto quanto sia già scomparso a causa della furia distruttrice della guerra.

Perché tutto parte dalla strada dei librai di Baghdad, dedicata al poeta nazionale al-Mutanabbi?

«Quel conflitto ha lasciato un marchio indelebile nella mia vita. C’è stata una lunga campagna di informazione americana dove la guerra era mostrata al mondo dalla prospettiva, aerea e distaccata, di chi bombardava l’Iraq. Così la vita dei civili iracheni è scomparsa: non è stata nemmeno raccontata. In quegli anni, i primi anni in cui sono arrivato negli Stati Uniti, ho compreso il senso del concetto di “danno collaterale”. Ho capito come e quando il linguaggio viene usato per svuotare le vite degli esseri umani e farle diventare dei buchi neri. Da qui ho iniziato a lavorare a dei racconti in cui mi chiedevo come sia possibile misurare l’entità distruttrice della guerra. Nel romanzo ci sono riferimenti alla letteratura irachena classica e al rapporto tra morte e vita, con suggestioni filosofiche tratte da Walter Benjamin, rispetto al come la storia cannibalizzi la vita dei perdenti. Questo romanzo è una meditazione sul senso della vita e anche su ciò che chiamiamo casa, soprattutto per chi, come me, scrive di un Paese da cui proviene, ma in cui non vive più».

In un passaggio nel romanzo insiste sulla necessità che la memoria non sia uno strumento per investigare il passato ma soprattutto un posto dove custodire le esperienze del passato. Come iracheno della diaspora cos’è la memoria per lei?

«Ho molti amici e parenti iracheni della diaspora che non vogliono tornare in Iraq nemmeno per una breve visita. Vede, la nostalgia per ogni essere umano è un detonatore potente ma la nostalgia può essere di due tipi. C’è la nostalgia “riparatrice” che non può portarci indietro perché la storia è cambiamento. Ma c’è la nostalgia “riflessiva” che guarda le cose già mutate e le contempla. La memoria è un luogo di differenze. E, per quanto abbia cercato di non guardare solo le cose che esistono, che permangono nella mia memoria, e abbia aperto gli occhi sulle cose nuove, non posso pretendere di comprendere l’Iraq come se vivessi ancora lì. Non sono uno straniero totale all’Iraq, ma ho una relazione orbitale con l’Iraq. Mi sento come Saad Youssif, un grande poeta iracheno che ha lasciato l’Iraq nel ‘79 e ha vissuto in tantissimi posti diversi, da Dubai agli Stati Uniti, e ha continuato a scrivere di Iraq. C’è una sua bellissima poesia La nostalgia mi è nemica in cui spiega il suo senso di paralisi. Anche io ho lasciato l’Iraq ma l’Iraq non ha mai lasciato me».

Il suo romanzo è un palinsesto di voci e ogni capitolo è dedicato a una voce sola, non necessariamente umana. Se siamo in una sinfonia e tutto è corale, quanto conta essere al servizio di altre voci e non una voce che si arroga il diritto di “salvarne” altre?

«C’è sempre il pericolo di parlare per qualcun altro invece di ascoltare. Io non do la voce. Mi metto semplicemente in ascolto. Ecco perché, come accade nella letteratura araba pre-moderna, ho fortemente voluto un libro polifonico, anche se scritto da una sola persona. Qui parlano anche gli alberi e gli animali. Tutte le voci dell’Iraq sono incluse senza che alcuna prevalga».

L’Iraq, nella memoria collettiva occidentale recente equivale a petrolio, bombe e terroristi. Questo le nuove generazioni di iracheni lo rifiutano, costruendo una narrativa nazionalista ma basata sulla cultura, sulla letteratura e l’arte, non solo quella dell’antica Mesopotamia. L’abbiamo visto nella rivoluzione del 2019. In cosa consiste questa rinascita culturale?

«Paesi medio-orientali come l’Iraq sono rappresentati in Occidente come monoliti e sono diventati war zones perenni dell’immaginario. Come se l’Iraq fosse capace solo di produrre guerra o materiali grezzi. Ma quelle poche volte in cui si menziona la cultura irachena la si confina sempre a un passato irripetibile: la Mesopotamia, Nabucodonosor, Babilonia. E ci si dimentica che negli anni Cinquanta eravamo un Paese molto evoluto, almeno fino agli anni Settanta, soprattutto nell’uso dell’arabo moderno, nella poesia, nella leadership femminile, in letteratura e nell’arte. La rivoluzione del 2019, la “thaura tishreen”, è una svolta epocale. Oltre a essere stata il momento più importante negli ultimi cent’anni di storia dell’Iraq, dopo la rivoluzione del 1920 contro il colonialismo anglosassone, la rivoluzione - dopo anni di settarismo costituzionale e sociale, indotto dal progetto americano di ridefinizione dell’Iraq - è stata il primo momento in cui è stato ritirato fuori il secolarismo patriottico, in cui le donne hanno rivendicato il loro ruolo nella sfera pubblica. E la poesia e l’arte sono diventate resistenza dell’identità irachena. Non a caso molti manifestanti uccisi dalle milizie filoiraniane, come Alaa Mashzoub a Karbala, erano poeti, erano creativi, artisti, autori di murales. Mai come in questa situazione è chiaro il ruolo cruciale dei poeti e degli scrittori. Non ci sono vie di mezzo: o stai con le persone che vogliono cambiare il Paese o sei complice delle istituzioni, dei regimi e dei Paesi che li tollerano e che usano l’Iraq come il loro cortile di casa».

Dopo vent’anni, cosa il mondo deve imparare dalle cose accadute in Iraq?

«Tristemente, l’Iraq è stato il barometro dei disastri futuri. Il cambiamento climatico, per esempio, è solo la conseguenza di un mondo guidato dal profitto che distrugge la vita delle persone, degli alberi, delle piante. La storia dell’Iraq dimostra che il mercato del petrolio funziona benissimo per merito degli oligarchi che vivono a Mosca, Dubai e a Londra, mentre i fiumi della Mesopotamia sono secchi e inquinati, le persone muoiono d’intossicazioni misteriose e tumori, i contadini non riescano a coltivare più nulla. Sono un gramsciano, nel senso che pratico il pessimismo della ragione e l’otti-mismo della volontà. Ma non posso fare a meno di constatare che alcuni Paesi hanno dovuto pagare prima di altri il prezzo per tenere in piedi tutto il sistema globale».

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