C'è un alfabeto silenzioso alla base di ogni opera d’arte. Una serie di elementi fondamentali che pur non avendo voce, parlano e rendono intellegibile l’immagine. Ai meccanismi di questa “eloquenza” è dedicato il convegno
Il silenzio delle immagini. Teorie e processi dell’invenzione artistica a cura di Claudia Cieri Via e in programma domani e sabato a Roma, nell’Auditorium del Maxxi. Organizzato dall’Università di Roma La Sapienza, lo stesso Maxxi, i Musei Vaticani e il Kunsthistorisches Institute di Firenze, vede la partecipazione di studiosi come Gehrard Wolf, Paul Hills, Victor Stoichita, Andreas Beyer, Micol Forti.«Di norma quando analizziamo un’opera lo facciamo in base a categorie estetiche e riferimenti di cosa quell’opera rappresenta e come si colloca in un percorso storico» spiega Claudia Cieri Via, professore ordinario di Storia della Critica d’Arte alla Sapienza. «A noi interessa invece tornare agli elementi capitali della invenzione artistica, ossia individuare in un dipinto, in una scultura o in una architettura quali sono gli elementi utilizzati dai vari autori nel costruire un’immagine. Tutto questo cercando di mettere a fuoco i momenti cruciali in cui davanti ai cambiamenti si è tornati a ragionare sui fondamenti». La classicità e il Rinascimento con Leon Battista Alberti sono tra questi: «Proprio Alberti parla di composizione come di combinazione di luce colore e disegno, elementi che ritroviamo declinati nel momento di rottura segnato dall’astrazione. Ma il discorso è valido anche oggi, dove i canoni estetici sono stati smantellati». Il silenzio sta nel linguaggio proprio dell’arte, prima del suo essere rappresentazione: «È nel modo in cui l’immagine si è formata. È un silenzio eloquente, non è muto. È il silenzio che si mette in rapporto con il pensiero. Nell’osservare ciò che l’immagine mi trasmette attivo un processo mentale che mi porta a comprenderne la sua origine di invenzione. Non è solo percezione o ispirazione, ma l’immagine stessa mi dà gli strumenti per capire cosa vuole trasmettere». I momenti di rottura sono interessanti perché comportano una maggiore evidenza dei fenomeni: «Il lavoro però è capire il perché delle rotture. Parlare del silenzio delle immagini non è tornare a un formalismo percettivo e estetizzante, ma mettere a fuoco le radici compositive dell’invenzione per capire il fenomeno nella sua individualità e nella portata sintomatica di eventi storici».Un altro aspetto che interessa Claudia Cieri Via è mettere in luce la possibilità di individuare un metodo che consenta uno stesso approccio tra opere di epoche diverse: «Non c’è differenza nel ragionare su una composizione di Vittore Carpaccio e su
Broadway Boogie Woogie di Mondrian. Possiamo rintracciare elementi che Carpaccio ha sistemato in una griglia prospettica e Mondrian attraverso i colori. Per Mondrian è il risultato di un percorso che dagli alberi lo porta alla musica, per Carpaccio è quello da uno spazio preprospettico a uno prospettico. In entrambi i casi il problema è il rapporto di continuità tra spazio e tempo, con il passaggio da una rigida geometrizzazione alla messa in moto degli elementi».Sono tanti però i silenzi che avvolgono un’opera d’arte. «Uno dei principali temi della nostra cultura contrappone l’immagine alla parola – spiega Andrea Pinotti, professore di Estetica all’Università degli studi di Milano, che al convegno interverrà sul rapporto tra narrazione, tempo e spazialità nell’immagine iconica –. Di fronte a un’immagine abbiamo anche un irrefrenabile bisogno di commentare: tra me, con chi mi accompagna e c’è chi delle parole sull’arte ne fa una professione. Ma per quante parole spendiamo, la sensazione è che l’immagine si ritiri, non si lasci esaurire in ciò che diciamo. C’è un fondo inesauribile, che non si lascia descrivere: ed è un fondo di silenzio. Un aspetto resistente dell’immagine».Difficile sottrarsi all’idea che questo fondo ineffabile non coincida in qualche modo con la sacralità spesso riconosciuta all’arte: «Ci sono punti di contatto tra immagine e sacro – commenta Pinotti – ma penso che la questione dell’ineffabile sia più semplice e concreta: se le immagini potessero dirsi tutte a parole, nessuno le dipingerebbe. C’è una ineffabilità che è ancora più elementare del sacro e che verosimilmente lo fonda e lo supporta nel momento in cui questo interviene con le sue esigenze di trascendenza. Non tutto ciò che costituisce l’immagine è dicibile, e non le cose importanti. Altrimenti sarebbe traducibile anche la dimensione ontologica dell’immagine che, invece rimane nei fatti inattingibile alla parola». Ma in questo bombardamento di immagini, corrispettivo ottico del rumore bianco, esiste ancora il silenzio? «Ci troviamo in una mobilitazione totale dell’immagini in cui il rumore bianco è difficilmente arginabile. Didi-Huberman parla di pazienza: occorre trovare il tempo di soffermarsi davanti a un’immagine sottraendosi al tumulto; ma usa il termine anche nel senso di patire, restituire all’immagine e a noi stessi la capacità di sentire, del pathos, una dimensione che invece viene negata all’immagine. Le prediche intorno alla sua inaccettabilità morale non fanno altro che acuirlo. Si può però sviluppare uno sguardo che lo decostruisca. Penso a un lavoro in cui Banksy immortala una telecamera a circuito chiuso che fissa un muro su cui c’è scritto “What are you looking at?”, “Cosa stai guardando?”. Sono immagini di questo tipo che possono sviluppare interstizi di consapevolezza e criticità».