giovedì 25 marzo 2021
Torna in Tv la quotidianità di una famiglia di ebrei ultraortodossi in un quartiere di Gerusalemme. La regista e studiosa di ebraismo Miriam Camerini: «Un lavoro sincero, molto aderente alla realtà»
Michael Aloni “Akiva” sul set della terza stagione

Michael Aloni “Akiva” sul set della terza stagione - Vered Adir - Courtesy of Yes Studios

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Questa sera arriva su Netflix la terza stagione di Shtisel, la serie che racconta la quotidianità di una famiglia di haredim in un quartiere ultraortodosso di Gerusalemme. È uno dei prodotti migliori, e più premiati, proposto dalla piattaforma. Semplicemente, piace a tutti. Piace ai non ebrei che abbiano voglia di conoscere un mondo altrimenti inaccessibile; piace agli ebrei che ci si riconoscono; e forse piacerebbe anche a chi, nella comunità haredi, si vedesse rappresentato. Ipotesi difficilmente verificabile visto che a Geula, a Mea Shearim, a Bnei Brak e nei tanti quartieri ultraortodossi di Israele la tecnologia non è esattamente il core business. E nelle case la Tv non c’è (o non ci dovrebbe essere).


È pur vero che la produzione entra con rispetto nelle strade e negli spazi privati di questo mondo molto geloso della propria specificità . E ne esce un lavoro onesto, pulitissimo. «Molto aderente alla realtà», spiega la regista e studiosa di ebraismo Miriam Camerini, che vive tra l’Italia e Israele e che le nuove puntate le ha già viste. «Contrariamente a quanto si pensi, non c’è, neanche nelle comunità haredi, una policy rigorosa che valga per tutti. Quando, in un episodio della seconda stagione, qualcuno propone un’intervista televisiva ad Akiva (il giovane artista ultraortodosso protagonista della serie) premettendo: “So che voi non avete un buon rapporto con i mezzi di comunicazione di massa”, la risposta è esemplare: voi chi? – dice Akiva –. Io sono qui da solo”.

'Akiva' Michael Aloni nella terza stagione di Shtisel

"Akiva" Michael Aloni nella terza stagione di Shtisel - Courtesy of Yes Studios

Il tema di fondo su cui è costruita la serie è quello del conflitto interiore e generazionale vissuto da un giovane artista figurativo. «Un dramma che ricorre nell’ebraismo - spiega Camerini –. Il mio nome è Asher Lev, di Chaim Potok, parla proprio di questo: del percorso di un ragazzo che cresce in una famiglia di chassidim, una comunità che ha regole se possibile ancora più arcaiche di quelle che governano il mondo haredim. Il giovane ha un talento grandissimo per il disegno e questo è un problema, perché l’ebraismo è contrario alla raffigurazione. Come lui, Akiva ha un dono. Lo sa. E ci fa i conti». Finendo per scegliere sé stesso, pur restando con in piedi ben piantati nella tradizione.

Dov Glickman 'Shulem' e Michael Aloni 'Akiva' nella terza stagione di Shtisel

Dov Glickman "Shulem" e Michael Aloni "Akiva" nella terza stagione di Shtisel - Ohad Romano - Courtesy of Yes Studios

Shtisel tocca altri temi importanti. Come quello del matrimonio, della ricerca di una fidanzata. “Missione” quasi impossibile che impegna Akiva per tutta la prima stagione, in una buffa successione di incontri organizzati più o meno fallimentari. E che siano “combinati” è solo una necessità pratica. «Quello degli haredim è un mondo molto strutturato, come qualunque società umana che decida di vivere secondo un obiettivo condiviso – spiega la regista –. Chi ne fa parte ne accetta le regole. Oppure se ne va. In questo contesto, l’uomo e la donna hanno ognuno la propria funzione, finalizzata al benessere dell’intero gruppo. Ora: va considerato che quelle degli haredim, dei chassidim, dei dati leumi (movimento ortodosso del sionismo religioso) sono società in cui gli uomini e le donne non crescono insieme, non vanno alle feste insieme, non si incontrano al bar. Sono mondi in cui vige, dai tre anni in su, la separazione. Quindi è ovvio che per conoscere persone dell’altro sesso serva un “combinatore” (shadchan): lo si vede ben in Stishel. Ma non sono i genitori che decidono. Non c’è imposizione. C’è, è vero, l’idea che non si debba “perdere tempo” con la gente dell’altro sesso: ti incontri con una persona al fine di sposarti, punto». In fondo uno “speed date” prima maniera, che si svolge in genere nelle hall degli hotel di Gerusalemme: ce ne sono alcuni specifici per questo tipo di occasioni. L’appuntamento viene gestito con grande semplicità (ritorna il concetto ebraico della modestia, la tzniut): non si spendono troppi soldi, anche perché in molti casi non ce ne sono; non si cena e non si indulge in grossi piaceri: un succo d’arancia o un caffè possono bastare. Soprattutto, non serve farla troppo lunga: la cosa funziona o non funziona. E spesso sono le donne a decidere. «Nella terza stagione emergerà ancora di più la loro forza – continua Camerini –. Sono le donne che lavorano, perché gli uomini studiano in yeshivà, sono le donne che mantengono la famiglia, e alla fine sono le donne che hanno il potere di scegliere e indirizzare. Vedremo uno dei personaggi femminili decidere a un certo punto di comprarsi una macchina, che già è considerata un mezzo superfluo per gli uomini. Ce la farà, conquistandosi la sua libertà». Stereotipo frantumato. Come tanti altri che la serie, con intelligenza, ironia e naturalezza, riesce a decostruire. Per un risultato sorprendente. Tutto da vedere.

Dieci cose da sapere su Shtisel

​Risponde Miriam Camerini

1) Chi sono gli haredim?
In genere si traducono come ultraortodossi ma sarebbe più proprio definirli ultra-praticanti: è una corrente dell’ebraismo che applica in maniera più rigorosa delle altre i precetti della Torah.
2) Cosa vuol dire haredim?
Haredi vuol dire “il tremante”, “haredim” è il plurale: è l’ebreo che trema davanti a Dio
3) Dove sono le principali comunità haredi?
Ce ne sono molte in Israele. A Gerusalemme nei quartieri come Geula e Mea Shearim, per esempio. C’è un insediamento fuori Tel Aviv che si chiama Petah Tikva. Ci sono poi varie comunità nel mondo – New York, Anversa, in Argentina – dove però sono principalmente chassidici (appartengono cioè alla mistica chassidica)
4) Che lingua parlano?
Principalmente lo yiddish, che non è una lingua semitica ma germanica, piena di vocaboli slavi ed ebraici. In Israele parlano anche l’ebraico (tendenzialmente le nuove generazioni)
5) Perché hanno i riccioli (payout) ai lati del viso?
Perché nella Torah c’è un precetto riservato agli uomini che richiede loro di non radersi le basette agli angoli della faccia. Per tradizione gli haredim tengono i payot staccati dal viso, ma potrebbero anche essere attaccati, come una normale barba
6) Perché portano la kippah?
La kippah, che potrebbe essere qualsiasi copricapo, viene portata in realtà da ogni ebreo osservante quando mangia, quando prega, quando studia e in generale quando esegue qualsiasi precetto.
7) Perché indossano le frange (tzitzit)?
È un precetto, molto preciso nella sua formulazione, perché si trova in diversi punti della Torah. Tutti gli ebrei osservanti portano il tallit katan: una specie di gilet con le frange, la differenza è che alcuni ebrei mostrano le frange, tenendole fuori dai vestiti, altri no.
8) Che rapporto hanno gli haredim con Israele?
Alcuni di essi, i più “conservatori”, non si identificano con lo Stato. Vivono in Israele in quanto Terra Santa, ma non in quanto Stato di Israele. Non sono sionisti, anzi contrastano il sionismo. E non fanno il servizio militare. Aspetto che crea molte tensioni nella società israeliana.
9) Perché l’arte figurativa è proibita nell’ebraismo?
L’origine di tutto è il secondo comandamento: non ti farai immagine di ciò che è in cielo né di ciò che è in terra. Il significato più proprio è “non venerare immagini”, un monito contro l’idolatria (il Vitello d’oro).
10) Che rapporto hanno gli haredim con la tecnologia?
Il concetto di base è che non si dovrebbe utilizzare Internet. Hanno cellulari e computer “kasher”, non smart, abilitati solo a fare telefonate e operazioni limitate. L’idea è che se tu parli, mentre parli ti si deve poter sentire. Anche la televisione non è apprezzata.

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