martedì 3 luglio 2018
Parla l’artista australiano che nei suoi racconti affronta spesso il tema del viaggio e dello spaesamento: «L’esperienza dello straniero ci fa guardare il mondo in modo nuovo»
Una delle tavole de «I Conigli», il libro realizzato nel 1998 da Shaun Tan e ora riproposto da Tunué

Una delle tavole de «I Conigli», il libro realizzato nel 1998 da Shaun Tan e ora riproposto da Tunué

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Ci sono i fumetti, ci sono le graphic novel e poi ci sono i libri di Shaun Tan. Che fanno storia a sé, in un territorio particolarissimo posto all’incrocio tra le arti figurative e quelle del racconto, tra la poesia e il cinema di animazione. Nato nel 1974 in Australia (per l’esattezza a Freemantle, nei pressi di Perth), Shaun Tan si è imposto come uno dei più originali autori e disegnatori degli ultimi anni grazie a libri come L’albero rosso, La cosa smarrita – da cui è tratto l’omonimo cortometraggio vincitore dell’Oscar nel 2011 – e L’approdo, considerato il suo capolavoro: una vicenda di sradicamento e di affetti tenaci nella quale sono evidenti i richiami alla condizione dei migranti. Adesso Tunué, la casa editrice che ha attualmente in catalogo le sue opere, ripropone I Conigli (traduzione di Marco Ruffo Bernardini, pagine 32, euro 17,00), realizzato nel 1998 in collaborazione con lo scrittore John Marsden. Un altro apologo sugli stranieri venuti da lontano, anche se questa volta il tema dominante è quello del colonialismo e dello sfruttamento. «Siamo all’estremo opposto rispetto all’Approdo – ammette l’artista – ma la domanda di partenza rimane la stessa: è possibile sviluppare un senso di appartenenza verso un luogo che ci è del tutto estraneo? È un interrogativo al quale occorre prestare attenzione anche se proviene da conquistatori aggressivi, che magari nascondono la loro ansia sotto la violenza, come fanno i Conigli. Può cambiare il punto di vista, ma è sempre la stessa storia, raccontata in versioni diverse: stranieri in terra straniera alle prese con le conseguenze dello spaesamento, buone o cattive che siano».

Come mai torna così spesso su questo argomento?

«Perché, sotto il profilo artistico, offre molte opportunità di guardare il mondo che conosciamo da prospettive inedite. Allo stesso tempo, permette di riconsiderare gli avvenimenti storici con maggior freschezza. Da ragazzo non ero granché interessato al passato dell’Australia, ma più tardi, nel mio lavoro di artista, mi sono reso conto di quanto certi episodi fossero sorprendenti ed emozionanti. Sembravano racconti di fantascien- za, tanto erano strani. Anzi, è tutta la storia a essere strana e a contaminare con la sua stranezza le inquietudini del presente. Ma più strano ancora è che a ciascuno di noi può capitare di trovarsi invischiato in un ruolo differente: il colonizzatore o il colonizzato, il visitatore ignaro o l’ospite sospettoso, il bambino sconcertato o i suoi genitori, ancor più sconcertati».

Che idea si è fatto di quello che sta accadendo nel Mediterraneo?

«Ne so meno di quanto dovrei, temo, pur seguendo le notizie che arrivano da Lampedusa e da altre località. In ogni crisi di vaste proporzioni è sempre presente il rischio dell’astrazione, di una contrapposizione che accolla all’“altro” il peso delle trasformazioni in corso e della paura che ne deriva. In questo modo ci dimentichiamo dell’umanità che ci accomuna come persone e non teniamo più in alcuna considerazione l’elemento casuale, che senza alcuna colpa ci porta a occupare una determinata posizione da una parte o l’altra della barricata. Ciascuno di noi potrebbe essere un rifugiato, ma non è facile ricordarsene quando siamo al sicuro. I racconti hanno il potere di farci riflettere su questo e altri aspetti, sviluppando la nostra immaginazione e il nostro senso di empatia».

Questo spiega come mai solitudine e malinconia sono tanto ricorrenti nel suo lavoro?

«Chissà, magari è perché passo molto tempo al mio tavolo da disegno... In effetti penso che esista un legame con la lentezza che le storie richiedono per svilupparsi (anche a causa dell’indecisione del narratore, sia chiaro). Nella vita di ogni giorno mi sembra di percepire intorno a me molta tristezza, che purtroppo viene spesso dissimulata e nascosta. Personalmente sono convinto che dalla tristezza ci sia molto da imparare, oltre che dal conflitto e dall’inquietudine. Provo molto interesse per i sentimenti che ci mettono a disagio, facendoci percepire che non è tutto a posto e che nella realtà agiscono connessioni profonde e poco avvertite, se non addirittura cancellate e rimosse. Non so bene che cosa siano, ma la scrittura e la pittura possono essere un modo per scoprirlo».

Il disegno è una forma di racconto?

«Per me è stato così fin dall’inizio e, da quel che vedo, è così anche per mia figlia, che oggi ha cinque anni. Il nesso è talmente forte che l’atto stesso di disegnare (meglio ancora. il movimento che il disegno implica) è già una storia in sé. Non un modo di raccontare, ma la storia stessa, capisce? Nel mio lavoro di artista mi pare di raggiungere ogni tanto questa sincerità assoluta, questa assoluta unità di segno, pensiero e racconto, ma so bene che un bambino dell’asilo ci riesce molto meglio. Con il tempo ho imparato ad apprezzare l’opportunità di condividere storie offerta dal disegno: un modo per sognare insieme a occhi aperti, in un certo senso. All’età di undici anni avevo già realizzato un po’ di piccoli libri illustrati per la biblioteca scolastica, completi di segnatura. Gli altri bambini li prendevano in prestito, ma ancora non avevo capito che quella poteva essere la mia strada. Ci sono arrivato molto più tardi, quando mi è tornato alla mente quanto fosse piacevole disegnare e quanto efficace potesse essere il risultato, specie se le storie erano molto semplici e molto strane».

Le periferie occupano uno spazio importante nei suoi libri: perché?

«Credo che le periferie siano marginali e centrali insieme. Sono cresciuto a Perth, una specie di avamposto che a me sembrava fuori dal mondo. Quel che c’era di importante accadeva sempre altrove. I programmi televisivi, i film, i giochi, i libri: qualsiasi cosa fosse interessante e alla moda veniva da qualche altro posto. Attorno ai vent’anni, però, quando ho cominciato a impegnarmi seriamente nella pittura di paesaggi, ho rivolto sempre più spesso la mia attenzione agli scenari della periferia in cui ero cresciuto e ho scoperto quanto fossero misteriosi e poetici, carichi di un’atmosfera davvero unica. Più tardi ho iniziato a scrivere storie nelle quali questi scorci suburbani facevano da sfondo ad avvenimenti di natura onirica, in una dimensione narrativa che ancora oggi continua ad affascinarmi. Solo adesso riesco a comprendere come sia difficile imbattersi in qualcosa di altrettanto arcano o sconcertante (oppure pronto per essere rielaborato nell’immaginazione) come la quotidianità dalla quale si desidera fuggire quando si è giovani».

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