La scrittrice cilena Claudia Apablaza - archivio
Attraverso ricordi d’infanzia, letture, sessioni di psicoanalisi, episodi di vita quotidiana, ossessioni e riflessioni su scrittura, maternità e migrazione, la scrittrice cilena Claudia Apablaza, in Storia della mia lingua (Edicola Edizioni, pagine 132, euro 13,00: traduzione di Marta Núñez Rota) crea una costellazione di brevi “pezzi” di scrittura attorno al pianeta-lingua nelle sue diverse accezioni, non solo organo fisico di deglutizione e masticazione, ma simbolo di libertà espressiva e insieme di potenziale incomunicabilità. L’abbiamo intervistata in occasione della sua presenza a Milano per Book Pride, dialogando su come la lingua contribuisca ad affermare e preservare l’identità, ma soprattutto su come si possa provare a superare il tema dell’incomunicabilità.
La lingua contribuisce a costruire l’identità. Come si può preservare questa identità? Ampliando la riflessione anche alle lingue madri e a quelle in pericolo di estinzione.
«L’identità è un costrutto in continua evoluzione e questo significa che le identità non sono fisse, ma un processo nel quale interferiscono molte variabili: le nostre origini, la vita che ci è toccata in sorte, il Paese dove siamo nati, la lingua che parliamo, le classi socioeconomiche e culturali cui apparteniamo, il genere con il quale ci identifichiamo, e ciò che noi stessi facciamo con quelle classi e con quei generi. Ma è il linguaggio che sostiene l’identità. Ovvero, siamo esseri di linguaggio ed è nel linguaggio e nella comunicazione che si rende esplicita la nostra identità. Ma la nostra identità non è solo un processo individuale, riguarda anche la collettività. E per preservare quella storia collettiva è molto importante conservare alcune lingue, quei segni distintivi che, come dice Ferdinand de Saussurre, sono usati in modo permanente da certe comunità. Ebbene, se alcuni gruppi smettono di usare quei segni distintivi, se sono colonizzati, se vengono assorbiti in altri gruppi, questi segni rischiano di scomparire, come succede ad esempio ai latinoamericani che vivono in Spagna, che perdendo alcune forme di linguaggio, perdono o annullano anche alcuni tratti della loro identità».
Gli strumenti digitali e le intelligenze artificiali possono rafforzare o indebolire il linguaggio?
«Per quello che riguarda identità e linguaggio, gli strumenti digitali hanno funzioni sia positive che negative. Pensando che siamo nel bel mezzo dell’era digitale e tecnologica e che è grazie alla tecnologia che l’economia muove il mondo, di fatto non avere accesso ai processi digitali, come succede nella maggior parte dei Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, apre un profondo divario rispetto ai Paesi sviluppati come ad esempio la Comunità Europea o il Nord America. Quando poi gli strumenti digitali rimpiazzano alcune istanze di socializzazione come il gioco o l’interazione sociale durante lo sviluppo e la crescita, i problemi in termini di salute mentale, immaginario, sviluppo cognitivo, empatia e collettività possono essere diversi. Ad esempio, il linguaggio emotivo diventa enormemente più povero con l’eccessiva esposizione ai dispositivi digitali, dato che si tratta di apparati individualisti che molte volte generano artifici relazionali, pseudo-vincoli e pseudo-empatie».
Il linguaggio e la parola sono sempre in costruzione. In una società dominata dall’immagine, in quale direzione si sta andando?
«La società è dominata da immagini e tecnologie. Quest’ultime nel loro intento di standardizzazione e globalizzazione spesso cancellano alcuni aspetti dell’identità. Come quando, ad esempio, il programma non riconosce molte delle parole che digitiamo sulla barra di ricerca e ce ne suggerisce altre, di fatto uniformando la nostra ricerca. Capita più o meno lo stesso con alcuni editori spagnoli che quando non capiscono quello che scriviamo, cambiano alcune delle nostre parole per uniformarle allo spagnolo di Spagna. In termini editoriali questa è una lunga discussione che noi scrittrici e scrittori latinoamericani abbiamo aperto con le case editrici spagnole. Il linguaggio sta andando verso questo tipo di standardizzazione, ma sono molti ormai i gruppi e i collettivi che denunciano questi aspetti. Questo è uno dei punti centrali del mio libro. Mettere in chiaro che in Spagna, dopo più di 500 anni, si vuole mantenere in atto questa sorta di colonizzazione linguistica».
Quando si parla di traduzione spesso si parla anche di sensibilità culturale. Quanto è importante tenerne conto?
«Non sono una traduttrice, ma credo in quello che si dice ovvero che i migliori traduttori sono quelli che di fronte a un testo in un’altra lingua, una lingua che non è la loro, si pongono molte domande, non danno nulla per scontato, e al contrario, sentono aprirsi davanti a loro un mondo da scoprire, e iniziano un dialogo con l’autrice o l’autore, indagano, fanno ricerche, perché il traduttore non lavora solo con l’aspetto letterario delle parole, ma con il senso del testo, con le immagini, e con una lingua che ha una propria storia, personale e collettiva».
Si può superare il tema dell’incomunicabilità?
«Attraverso l’empatia affettiva e linguistica. Riconoscendo altre culture, lingue, linguaggi e tutto ciò che comportano. A partire dall’apprendimento e dal rispetto per la storia delle comunità, e non dalla loro colonizzazione».
Che ruolo può e deve avere la letteratura sul cambiamento del linguaggio?
«Più che cambiare il linguaggio, la letteratura è un’arma potente per preservare la memoria e la storia, ma allo stesso tempo per sfidare il linguaggio con lo scopo di dare un nome nuovo e personale a questa memoria».
Cosa vogliamo – tema di questa edizione di Book Pride – per il linguaggio?
«Vorrei che il linguaggio fosse una zona dove si preservi e si integri l’identitario e il collettivo, che sia la sua protezione, la sua casa. Che in esso convivano tutte le lingue, che si difenda la memoria delle comunità e dove al tempo stesso si aprano nuove possibilità di espressione e creazione».
(traduzione a cura di Alice Rifelli)