(Inferno XVII) Il mostro Gerione secondo Gustave Doré
Uno strano essere nuota per l’aria cupa dell’Inferno: «Ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro / venir notando una figura in suso» (Inf., XVI, 130-131). È un composto chimerico, un essere inquietante e favoloso: «La faccia sua era faccia d’uom giusto, / tanto benigna avea di fuor la pelle, / e d’un serpente tutto l’altro fusto; / due branche avea pilose insin l’ascelle; / […] / Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in su la velenosa forca / ch’a guisa di scorpion la punta armava» (Inf., XVII, 10-13 e 25-27). Questo mostro con volto d’uomo, corpo di serpente, coda di scorpione, è Gerione, il simbolo della frode, 'fiera' repellente con cui inizia il canto XVII: «Ecco la fiera con la coda aguzza, / che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!» (vv. 13). Per Dante è il tossico veleno che guasta ogni rapporto umano e anche ogni franca battaglia (per questo è per Dante grave la condanna di Ulisse come 'fraudolento' appunto, per il suo astuto inganno nell’assedio di Troia). Il suo profilo triforme è modellato sulle figure dei tormenti ultimi e agonici dell’Apocalisse: «Queste cavallette avevano l’aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano corone che sembravano d’oro e il loro aspetto era come quello degli uomini. Avevano capelli come capelli di donne e i loro denti erano come quelli dei leoni. Avevano il torace simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali era come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all’assalto. Avevano code come gli scorpioni e aculei. Nelle loro code c’era il potere di far soffrire gli uomini per cinque mesi. Il loro re era l’angelo dell’Abisso, che in ebraico si chiama Abaddon, in greco Sterminatore» (Ap., 9, 6-11).
L’immagine biblica bene conviene a questa diabolica fiera che dovrà far discendere i due pellegrini lungo le pareti verticali che portano a Malebolge, il pozzo profondo del vizio e dei tormenti, secondo l’immagine che lo stesso capitolo dell’Apocalisse richiama al proprio inizio: «Il quinto angelo suonò la tromba: vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso » (Ap., 9, 1). Dante ne ha terrore e Virgilio lo evocherà ancora, al sommo della montagna del Purgatorio, quando dovrà essere varcato il muro di fuoco: «Ricorditi, ricorditi! E se io / sovresso Gerïon ti guidai salvo, / che farò ora presso più a Dio?» (Purg., XXVII, 22-24).
Ma questa incombente presenza luciferina si attenua per il lungo ralenti descrittivo che Dante tratteggia nel rappresentare i variopinti scudi e rotelle che appaiono a rilievo sulle squame del serpente: «Lo dosso e ’l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. / Con più color, sommesse e sovrapposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / né fuor taï tele per Aragne imposte» (XVII, 14-18). All’improvviso appare su un corpo di mostro quasi il «motivo nel tappeto»: colori e intrecci d’Oriente, tramature favolose, sulle quali si soffermerà, con magnifica invenzione, Osip Mandel’štam: «Si tratta del colore della pelle di Gerione. Schiena, petto e fianchi sono pavesati con un ornamento di piccoli nodi e di scudi. Disegni a tinte più vivaci, spiega Dante, non sono usati neppure dai tessitori turchi o tartari per i loro tappeti... La vivacità manifatturiera di questo paragone è abbagliante» ( Conversazione su Dante, IV).
Ma il compito di Gerione deve ancora cominciare: saliti in groppa alla variopinta «fiera», essi scendono a larghi giri su intimazione di Virgilio: e disse: «Gerïon, moviti omai: / le rote larghe, e lo scender sia poco, pensa la nova soma [cioè Dante] che tu hai» (vv. 97-99). Il mostro varca fendendo l’aria come fosse acqua: «là ’v’ era il petto, la coda rivolse, / e quella tesa, come anguilla mosse, / e con le branche l’aere a sé raccolse » (vv. 103-105). Commenta ancora, acutamente, Mandel’štam: «La bramosia di volo tormentava ed estenuava gli uomini dell’epoca di Dante non meno dell’alchimia. [...] Davanti, solo quella groppa tartara: l’orrifica gualdrappa di seta della pelle di Gerione. [...] La macchina volante non era ancora stata inventata, ancora non c’erano i disegni di Leonardo, ma il problema della discesa planata era già risolto». E così Dante: «Ella sen va notando lenta lenta; / rota e discende, ma non me ne accorgo / se non che al viso e di sotto mi venta» (vv. 115-117). Questo fondersi di cielo e di acque è uno dei grandi topoi della Commedia, affascinante sciogliersi di orizzonti che vagheggia anche Ulisse (là dal mare al cie- lo): «De’ remi facemmo ali al folle volo» (XXVI, 125); e che ritornerà in Saint-John Perse: «Ascetismo del volo!... […] Ala falcata del sogno» ( Uccelli, I).
Non si ferma qui tuttavia il valore simbolico di quest’intreccio di corpi diabolici e umani in volo: se ne ricorderà il Pulci nel suo Morgante, nel canto XXV ponendo Rinaldo in groppa con il diavolo Astarotte, in un volo che unifica il canto di Gerione e quello di Ulisse, varcando le colonne d’Ercole e ricavandone una morale di mite misericordia, che è una delle lezioni più belle del nostro Umanesimo: «Dunque sarebbe partigiano stato / in questa parte il vostro Redentore, / che Adam per voi quassù fussi formato, / e crucifisso Lui per vostro amore? / Sappi ch’ognun per la croce è salvato; / forse che il ver, dopo pur lungo errore, / adorerete tutti di concordia, / e troverrete ognun misericordia ». (XXV, 233). Il diavolo è tentatore fraudolento, certo; ma in quel suo sgargiante mantello, in quel lento volo «per cento rote», plana sulle vicende umane, le saggia, le mette alla prova: come, ai nostri giorni, Woland, il demone di Maestro e Margherita di Bulgakov, che, proprio all’inizio del romanzo, contraddice il superficiale ateismo dei due scrittori a cui va incontro in una via di Mosca, ponendo loro una domanda, ch’egli stesso si era posto all’inizio dei tempi: «La questione che mi assilla però è questa: se Dio non esiste, chi regola e dirige la vita umana e tutto l’ordine sulla terra?». E toccherà al demone, dopo aver parlato dei suoi studi di negromanzia, troncare il dialogo con un perentorio: «Sappiate che Gesù è esistito, e non è una questione di punti di vista. È esistito e basta!». Ildegarda di Bingen, per prima, aveva compreso quel dramma di essere stato, il diavolo, così vicino a Dio da non poterlo mai più negare: «Quando il diavolo nega che Dio esista, si sa menzognero, poiché conobbe che Dio è, sapendo che era con sé» ( Epistolae, in PL, 197, 209D).