domenica 18 febbraio 2024
Un libro fa luce su uno degli episodi più tristi e meno indagati del periodo nazista. La battaglia delle sopravvissute per farsi riconoscere come vittime
Una immagine di repertorio che mostra una baracca femminile del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau

Una immagine di repertorio che mostra una baracca femminile del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau - Archivio Ansa

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La premessa imprescindibile, prima di affrontare il tema scabroso del volume di Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg I bordelli di Himmler. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, (Mimesis, pagine 224, euro 18,00), è enunciata nelle righe introduttive: «Non sono molti i libri di storia sulla Seconda guerra mondiale e sull’occupazione nazista che si interessano delle politiche di genere». La volontà di fare luce è ostacolata «da un lato, dalla sistematica distruzione della documentazione da parte dei nazisti in fuga alla fine della guerra, dall’altro, dal silenzio delle vittime e dei carnefici».

L’oblio sistematico diventato tabù e la scarsa volontà di fare memoria degli orrori compiuti nel nostro continente non consentono ancora di acclarare la verità storica relativa all’ossessione per il controllo anche nel sesso a pagamento da parte del regime nazista. Purtroppo la storia si ripete, ancora oggi: «Vergogna, senso di impotenza unito a collera e angoscia contraddistinguono per lo più le vittime della violenza sessuale, indipendentemente dal fatto che l’abbiano subita in guerra o in tempo di pace», puntualizzano gli autori, storici con esperienza nel campo espositivo.

Il libro nasce proprio da una mostra sulla schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, promossa da un’associazione austriaca. Se è impossibile stilare classifiche fra vittime, le donne risulterebbero comunque ai primi posti: «Nei territori occupati, l’esercito tedesco introdusse misure coattive riservate alle donne, per organizzare rapporti sessuali tra i suoi soldati e la popolazione femminile del territorio. La violenza sessuale, manifestazione della propria volontà di dominio, era funzionale all’umiliazione del nemico e fu attuata come strumento di tortura».

Già nei primi anni di guerra il regime «iniziò a organizzare in modo centralizzato la prostituzione per uomini “particolarmente importanti a fini strategici”: soldati, membri delle SS e lavoratori forzati».

La schiavitù sessuale nei campi di concentramento è stata «una forma di violenza sessuale organizzata» che coinvolse donne di diversa origine, classe e condizione di vita. A causa di pregiudizi e discriminazioni anche da parte dei loro ex compagni di prigionia, dopo la guerra «si videro a più riprese negare lo status di vittime: «Poiché avevano numerosi privilegi e buoni contatti con le SS, si sosteneva, non era loro mancato nulla: libertà di movimento, molti amanti e un accesso quasi illimitato a cibo, alcool, sigarette, abiti eleganti, gioielli, sapone e profumo».

Margarethe W. fu una delle poche a parlare. Uscita da Buchenwald molto malata, in Germania Est due internati politici la aiutarono a ricevere una pensione da “vittima politica del nazismo”. Emigrata nella Repubblica federale, solo nel 1988 ottenne un piccolo sostegno finanziario. Ma nel 1990 morì e il giorno stesso – ironia della sorte – le fu recapitata la decisione dell’autorità giudiziaria che glielo toglieva. «Presumibilmente la maggior parte delle ex schiave sessuali si trovò nel dopoguerra in una situazione simile. Se la giustizia non ha perseguito i responsabili della schiavitù sessuale, dal canto suo, nemmeno la ricerca storica è stata in grado di affrontare la questione».

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