Gesuita, poco più che ottantenne, Juan Manuel Scannone è il massimo esponente di quella che dagli anni Ottanta in poi è stata definita “teologia del popolo”. Oggi Scannone è direttore dell’Istituto di studi filosofici presso la facoltà di Teologia e Filosofia di San Miguel, la stessa di cui fu rettore Bergoglio tra il 1980 e il 1986. «Adesso che il mio amico Jorge è diventato “papa Francisco”, posso raccontare che sì, lui mi coprì le spalle, mi salvò. E lo fece in svariate circostanze». La dittatura percepiva la teologia del popolo come una minaccia, nonostante la sua sostanziale diversità dai cosiddetti teologi marxisti. Senza distinzione vennero perseguitati e brutalizzati religiosi, fedeli laici, catechisti, suore impegnate nelle villas miseria (le baraccopoli). «I militari erano incapaci di sottigliezze – spiega Scannone –. Per loro parlare di “liberazione” oppure di “opzione preferenziale per i poveri” si traduceva in un una sola parola: comunismo». Il regime teneva d’occhio lui e i suoi colleghi e confratelli. «La polizia si aggirava spesso qui intorno, non certo perché le stesse a cuore la sicurezza del collegio. Una volta arrivarono di notte. Superarono la cancellata e con le camionette circondarono l’edificio. Fu una vera irruzione. Ricordo ancora il rimbombo dei loro passi lungo i corridoi. Era buio e non riuscii a vedere in quanti erano. Avevamo il cuore in gola. Mi sentii nel mirino. Sono venuti a prendermi, pensai». Perché proprio lei? «Ero considerato un esponente della teologia della liberazione, corrente che il regime percepiva come fumo negli occhi. Bergoglio mi fece capire in ogni modo che correvo dei pericoli. A quel tempo pur trovandoci su posizioni teologicamente differenti, ma non direi così distanti, mai egli volle che io fossi zittito. Neppure quando alcuni vescovi intervennero segnalando come le mie posizioni fossero considerate scomode, per non dire disdicevoli».Bergoglio come reagì alla perquisizione?«Ci fece coraggio, tranquillizzò ciascuno e intimò ai militari di tornarsene da dove erano venuti. C’erano tra noi anche alcuni giovani che ci erano stati presentati dal provinciale come studenti in “ritiro spirituale”. In realtà ci abbiamo messo anni a conoscere fino in fondo la verità sulle azioni di salvataggio del padre Jorge».In che modo il futuro papa la salvaguardò dalla giunta militare?«Non erano anni facili. Padre Jorge si prese cura di noi com’era, del resto, suo dovere. Oggi le cose possono essere osservate e giudicate con altri occhi, ma allora Bergoglio fece ciò che nella sua posizione andava fatto. Si rapportava frequentemente con il padre generale, che era al corrente di quanto avveniva, e offriva a noi consigli su come evitare guai, aggirare il pressante controllo del regime, senza però mai dover rinunciare alle nostre idee». A tal punto da fornire una serie di suggerimenti per non finire “risucchiato” in un campo di concentramento? «Il primo dei consigli fu quello di non spedire mai i miei articoli e i miei saggi attraverso l’ufficio postale di San Miguel e meno che mai da Buenos Aires. Lui sospettava che tutta la corrispondenza fosse controllata, così come le conversazioni telefoniche. Inoltre, quando mi recavo nei quartieri dove svolgevo la mia attività pastorale, il superiore provinciale mi consigliò di non andare mai in giro da solo, e non esclusivamente per ragioni di sicurezza. Così, se la polizia, l’esercito, la marina o l’aeronautica fossero venuti a prendermi, ci sarebbero stati testimoni. Questa era una delle modalità che Bergoglio ci suggeriva per evitare di sparire dalla circolazione, inghiottiti nel più fitto silenzio».Il padre provinciale non disse nulla ai docenti e agli studenti del collegio riguardo alla vera condizione dei giovani perseguitati accolti a San Miguel? «Bergoglio diceva che i ragazzi capitati qui per dei periodi di permanenza erano in fase di discernimento vocazionale, oppure andavano accompagnati nei loro studi. Noi perciò credevamo che si trattasse di aiuto spirituale. Mai abbiamo sospettato che stesse conducendo operazioni “clandestine”. Padre Jorge non solo mantenne il segreto allora, ma non ha mai voluto farsi vanto di quella sua particolarissima missione. Egli si adoperò non solo per proteggere, tutelare e salvare padri gesuiti e seminaristi, ma anche per nascondere giovani studenti finiti nel mirino della dittatura, i quali venivano portati nel nostro collegio, con tutte le cautele del caso, allo scopo di tenerli al riparo dai rapimenti della polizia».Erano anni di paura... «Padre Bergoglio non poteva rischiare. Se uno dei gesuiti del collegio fosse stato sequestrato dai militari, chi assicurava che il malcapitato non venisse sottoposto a torture per rivelare quella attività segretissima? Se i sicari di Videla avessero scoperto che i gesuiti di Buenos Aires, sotto la regia del loro superiore, operavano clandestinamente in attività contrarie al “Processo di riorganizzazione nazionale”, certamente vi sarebbero state conseguenze che solo oggi possiamo immaginare».Infine, il caso di Yorio e Jalics, i due gesuiti rapiti, torturati e rilasciati dopo quasi sei mesi... «Padre Jalics ha smentito qualunque coinvolgimento di Bergoglio. Personalmente ne ero certo da anni. Poiché Bergoglio abitava nella nostra casa a San Miguel proprio quando fecero sparire i due padri, egli mi raccontava quello che faceva e le informazioni che raccoglieva per riuscire a scoprire chi li avesse sequestrati e dove fossero imprigionati. Posso testimoniare della preoccupazione e dell’impegno del padre provinciale per riportare in libertà entrambi».Bergoglio era riuscito ad avere informazioni precise?«Sì, e aveva messo con le spalle al muro i generali. Alla fine i due padri vennero rilasciati, ma in modo che non potessero dare indicazioni precise su chi li avesse trattenuti e torturati. Durante tutto il periodo di detenzione, entrambi sono rimasti sempre incappucciati e prima di essere liberati furono narcotizzati. Bisogna poi riconoscere che con l’aiuto del padre provinciale entrambi riuscirono a trovare riparo all’estero, per non incorrere in qualche nuova e più drammatica <+corsivo>desaparición<+tondo>».
Gesuita, poco più che ottantenne, Juan Manuel Scannone è il massimo esponente di quella che dagli anni Ottanta in poi è stata definita “teologia del popolo”. Oggi Scannone è direttore dell’Istituto di studi filosofici presso la facoltà di Teologia e Filosofia di San Miguel, la stessa di cui fu rettore Bergoglio tra il 1980 e il 1986. «Adesso che il mio amico Jorge è diventato “papa Francisco”, posso raccontare che sì, lui mi coprì le spalle, mi salvò. E lo fece in svariate circostanze». La dittatura percepiva la teologia del popolo come una minaccia, nonostante la sua sostanziale diversità dai cosiddetti teologi marxisti. Senza distinzione vennero perseguitati e brutalizzati religiosi, fedeli laici, catechisti, suore impegnate nelle villas miseria (le baraccopoli). «I militari erano incapaci di sottigliezze – spiega Scannone –. Per loro parlare di “liberazione” oppure di “opzione preferenziale per i poveri” si traduceva in un una sola parola: comunismo». Il regime teneva d’occhio lui e i suoi colleghi e confratelli. «La polizia si aggirava spesso qui intorno, non certo perché le stesse a cuore la sicurezza del collegio. Una volta arrivarono di notte. Superarono la cancellata e con le camionette circondarono l’edificio. Fu una vera irruzione. Ricordo ancora il rimbombo dei loro passi lungo i corridoi. Era buio e non riuscii a vedere in quanti erano. Avevamo il cuore in gola. Mi sentii nel mirino. Sono venuti a prendermi, pensai». Perché proprio lei? «Ero considerato un esponente della teologia della liberazione, corrente che il regime percepiva come fumo negli occhi. Bergoglio mi fece capire in ogni modo che correvo dei pericoli. A quel tempo pur trovandoci su posizioni teologicamente differenti, ma non direi così distanti, mai egli volle che io fossi zittito. Neppure quando alcuni vescovi intervennero segnalando come le mie posizioni fossero considerate scomode, per non dire disdicevoli».Bergoglio come reagì alla perquisizione?«Ci fece coraggio, tranquillizzò ciascuno e intimò ai militari di tornarsene da dove erano venuti. C’erano tra noi anche alcuni giovani che ci erano stati presentati dal provinciale come studenti in “ritiro spirituale”. In realtà ci abbiamo messo anni a conoscere fino in fondo la verità sulle azioni di salvataggio del padre Jorge».In che modo il futuro papa la salvaguardò dalla giunta militare?«Non erano anni facili. Padre Jorge si prese cura di noi com’era, del resto, suo dovere. Oggi le cose possono essere osservate e giudicate con altri occhi, ma allora Bergoglio fece ciò che nella sua posizione andava fatto. Si rapportava frequentemente con il padre generale, che era al corrente di quanto avveniva, e offriva a noi consigli su come evitare guai, aggirare il pressante controllo del regime, senza però mai dover rinunciare alle nostre idee». A tal punto da fornire una serie di suggerimenti per non finire “risucchiato” in un campo di concentramento? «Il primo dei consigli fu quello di non spedire mai i miei articoli e i miei saggi attraverso l’ufficio postale di San Miguel e meno che mai da Buenos Aires. Lui sospettava che tutta la corrispondenza fosse controllata, così come le conversazioni telefoniche. Inoltre, quando mi recavo nei quartieri dove svolgevo la mia attività pastorale, il superiore provinciale mi consigliò di non andare mai in giro da solo, e non esclusivamente per ragioni di sicurezza. Così, se la polizia, l’esercito, la marina o l’aeronautica fossero venuti a prendermi, ci sarebbero stati testimoni. Questa era una delle modalità che Bergoglio ci suggeriva per evitare di sparire dalla circolazione, inghiottiti nel più fitto silenzio».Il padre provinciale non disse nulla ai docenti e agli studenti del collegio riguardo alla vera condizione dei giovani perseguitati accolti a San Miguel? «Bergoglio diceva che i ragazzi capitati qui per dei periodi di permanenza erano in fase di discernimento vocazionale, oppure andavano accompagnati nei loro studi. Noi perciò credevamo che si trattasse di aiuto spirituale. Mai abbiamo sospettato che stesse conducendo operazioni “clandestine”. Padre Jorge non solo mantenne il segreto allora, ma non ha mai voluto farsi vanto di quella sua particolarissima missione. Egli si adoperò non solo per proteggere, tutelare e salvare padri gesuiti e seminaristi, ma anche per nascondere giovani studenti finiti nel mirino della dittatura, i quali venivano portati nel nostro collegio, con tutte le cautele del caso, allo scopo di tenerli al riparo dai rapimenti della polizia».Erano anni di paura... «Padre Bergoglio non poteva rischiare. Se uno dei gesuiti del collegio fosse stato sequestrato dai militari, chi assicurava che il malcapitato non venisse sottoposto a torture per rivelare quella attività segretissima? Se i sicari di Videla avessero scoperto che i gesuiti di Buenos Aires, sotto la regia del loro superiore, operavano clandestinamente in attività contrarie al “Processo di riorganizzazione nazionale”, certamente vi sarebbero state conseguenze che solo oggi possiamo immaginare».Infine, il caso di Yorio e Jalics, i due gesuiti rapiti, torturati e rilasciati dopo quasi sei mesi... «Padre Jalics ha smentito qualunque coinvolgimento di Bergoglio. Personalmente ne ero certo da anni. Poiché Bergoglio abitava nella nostra casa a San Miguel proprio quando fecero sparire i due padri, egli mi raccontava quello che faceva e le informazioni che raccoglieva per riuscire a scoprire chi li avesse sequestrati e dove fossero imprigionati. Posso testimoniare della preoccupazione e dell’impegno del padre provinciale per riportare in libertà entrambi».Bergoglio era riuscito ad avere informazioni precise?«Sì, e aveva messo con le spalle al muro i generali. Alla fine i due padri vennero rilasciati, ma in modo che non potessero dare indicazioni precise su chi li avesse trattenuti e torturati. Durante tutto il periodo di detenzione, entrambi sono rimasti sempre incappucciati e prima di essere liberati furono narcotizzati. Bisogna poi riconoscere che con l’aiuto del padre provinciale entrambi riuscirono a trovare riparo all’estero, per non incorrere in qualche nuova e più drammatica <+corsivo>desaparición<+tondo>».
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