«Là, a quindici passi un animale grosso, col pelame giallastro rigato di nero, colla testa somigliante a quella dei gatti ma molto più grossa, stava sdraiato al suolo, guardandolo con due occhi dai riflessi verdastri, ma che tradivano un’ardente bramosia». Di che cosa parlava Emilio Salgari quando parlava – e succedeva spesso – di tigri? A che pensava, il capitano di mare che non si era mai mosso dalla terraferma (eccetto un giovanile viaggio di tre mesi nell’Adriatico come mozzo), allorché descriveva il re degli animali asiatici, il felino elegantissimo e possente che giudicò degno di fare da modello del suo protagonista forse più celebrato: Sandokan, appunto «la tigre della Malesia»? Beh, Salgarello sapeva benissimo di che parlava; e adesso lo sappiamo anche noi, che potremo presto consultare su pagina nonché visitare dal vivo il fantastico e abbondantissimo zoo (circa 700 animali, di cui parecchi rari e oggi ormai estinti) dello scrittore veneto-piemontese morto giusto un secolo fa. Proprio per il centenario della scomparsa dell’autore sul quale si è esercitata la fantasia di milioni di italiani, soprattutto (ma non solo) in età giovanile, sono infatti in cantiere molte iniziative e tra le altre quelle cui si allude: la pubblicazione di un ciclopico
Dizionario Salgariano Illustrato (editore il torinese Little Nemo), compilato con certosina fedeltà da Vittorio Sarti e comprendente tutti i termini naturalistici, i personaggi e le «fonti» salgariane, e l’allestimento della grande mostra «Emilio Salgari: il realismo fantastico», in programma dal 27 aprile a dicembre presso il Museo regionale di Scienze naturali di Torino. Torino, non a caso Torino: dove il povero scrittore, nato a Verona nel 1862, si era trasferito a fine Ottocento e dove – oppresso dal lavoro, dai debiti, dalla malattia della moglie – si suicidò a nemmeno cinquant’anni il 25 aprile 1911, con un’impietosa rasoiata che forse voleva somigliare a un’unghiata di tigre ma in un boschetto di periferia; non certo una giungla. Poteva del resto morire di febbre vecchio e nel suo letto colui che i primi biografi (altri due torinesi: Roberto Antonetto e Giovanni Arpino) hanno giustamente definito «il padre degli eroi» (ben 1300 sono i suoi arditi personaggi)? No, anzi: come nella vita aveva cercato, grazie ai travestimenti della fantasia, di assomigliare a ciò che non aveva potuto o voluto essere nella realtà – esploratore, navigatore, capitano – Salgari scelse di portare la sua finzione fino a una morte che sembrasse quella ribelle e indomita di un suo protagonista («Vi saluto spezzando la penna», lasciò scritto); e invece risultò solo violenta e disperata.Perché il grande autore, che pure all’esordio come giornalista nelle sue cronache veronesi non aveva disdegnato le iperboli, nei romanzi come nella vita invece non sapeva inventare. Lo dimostra una volta di più il lavoro minuzioso di Sarti, che ha reperito fonti d’epoca per ben 4000 termini esotici – da Abad a Zulhegghe – usati da Salgari: riviste, dizionari ed enciclopedie (come quello in 24 volumi di Girolamo Boccardo), che l’irruente Emilio consultava e memorizzava, forse schedava nella sua fame d’avventura, senza dimenticare nemmeno i resoconti etnografici e i racconti di vita dei missionari che proprio allora irraggiavano entusiasti dal Norditalia al mondo. A quelle pagine poi lo scrittore attinse instancabilmente per descrivere con fedeltà ambienti, oggetti, situazioni che non aveva mai visto di persona. Tigre compresa. Un esempio: in passato c’era chi addebitava come errore a Salgari l’aver collocato tale felino nel Borneo (Mompracem infatti sta lì, e pure un porto di nome Sandakan...), dove invece non esiste; ma lo svarione, se c’è, non era suo: nelle enciclopedie d’epoca, infatti, si leggeva che «nel regno di Siam, nelle isole di Giava e di Borneo, ma sopratutto nell’isola di Sumatra, vive una sorta di felino al quale venne pur dato il nome di tigre, distinguendola dalla tigre reale col chiamarla tigre cinerina»... Anzi, il nostro ne sapeva tanto in materia da poter discettare persino «di quelle tigri che i Bengalesi chiamano
admi wala kanah» («tigri solitarie... Le più formidabili, poiché sono prudentissime») ovvero della «tigre
admikanevalla» («che ha assaggiato la carne umana... Meglio, così avrà minor slancio, essendo le
admikanevalla quasi sempre vecchie»)... «Salgari non inventava nulla ma si documentava meticolosamente per tutto quello che concerneva l’ambientazione storica e scientifica dei suoi romanzi – attesta anche il biografo e appassionato studioso Silvino Gonzato –. A furia di divorare enciclopedie, riviste scientifiche, giornali di viaggi, atlanti, Salgari si era formato un tale bagaglio di conoscenze esotiche che pochi altri scrittori d’avventura potevano vantare. Altro che bugiardo fantasioso, cosa peraltro non disprezzabile in uno scrittore di avventure».Altro esempio: che le tigri in Bengala sbranavano poco meno di mille persone l’anno non era fantasia, lo dicono le statistiche ufficiali dell’India sotto il dominio di Londra. Ma non basta, perché ogni lettore sa che la tigre di Emilio Salgari è anche un uomo: e allora come si fa a credere ad Antonio Franchini che, nella prefazione alla nuova edizione Oscar Mondadori dei tre maggiori tra gli 11 romanzi appartenenti al «ciclo della Malesia» (anche questa pubblicazione d’occasione per il centenario), si dice dubitoso che lo scrittore potesse conoscere un’antologia italiana del poema indiano
Mahabharata dove «l’appellativo più usato per definire gli eroi è "tigre tra gli uomini"»? L’unica soluzione è che l’abbia anticipata con la fantasia, come Ferruccio Parazzoli (vedi l’articolo in questa stessa pagina) ritiene sia successo col personaggio di Sandokan. Quest’ultimo, quando apparve per la prima volta sulle colonne della
Nuova Arena di Verona nell’ottobre 1883, fu annunciato da manifesti inquietanti affissi in tutta la città: «La Tigre della Malesia, animale terribile che si pasce di carne umana, sta per arrivare!». Era un’altra trovata di Salgari, una modernissima operazione di marketing per tentare di cavalcare la tigre di tutta una vita.