sabato 18 maggio 2024
Davanti all’esperienza della fede come la descrive san Paolo possiamo riconoscere la vera radice della nostra irrilevanza anche pubblica: perché è solo l’appartenenza a Gesù a fare la differenza
Nicola Sabatini

Nicola Sabatini - Meeting di Rimini

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Prosegue con l'esponente del Direttivo dell’Associazione Italiana dei centri culturali (www.centriculturali.org). il dibattito che da diverse settimane anima le pagine di “Avvenire” attorno alle questioni tra cattolicesimo e cultura. In precedenza sono intervenuti Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi ed Esposito.


È davvero come disse Giovanni Paolo II: “Una fede che non diventi cultura sarebbe una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Il fatto che il grado medio di consapevolezza del tesoro della fede da parte dei credenti sia critico e che l’aspetto culturale sembri ormai del tutto evaporato, soppiantato da modelli e contenuti proposti dal “mondo”, ripropone innanzitutto a ognuno di noi una verifica sulla centralità della nostra esperienza di fede. Come ebbe a dire don Giussani, la cultura può essere definita come «coscienza critica e sistematica di un’esperienza umana in sviluppo» e sorge in forza di un’appartenenza vissuta. In particolare, per ogni credente, appartenenza a quel luogo dove Cristo lo ha raggiunto e conquistato; dove la sua vita è rinnovata dall’incontro con esistenze cambiate dalla Sua presenza. Perciò sempre a Gesù occorre tornare, e la coscienza che dovrebbe animare il cristiano è innanzitutto la gratitudine stupita della sua presenza. Come dice Guardini, «nell’esperienza di un grande amore tutto è avvenimento nel suo ambito».

Mossi da questa gratitudine e, insieme, dal gusto e dall’urgenza di una avventura culturale che ha lo spessore e la vitalità della fede stessa, non possiamo non lasciarci provocare e addirittura ferire dalle domande e dal grido che emerge, sempre nuovo, dalla società e dal mondo. A don Giussani, giovane prete, sono bastati pochi incontri casuali con giovani che si dicevano cattolici, ma del tutto ignoranti rispetto al contenuto proprio della fede, per decidere di abbandonare «il paradiso della teologia» per un impegno nella scuola statale, dove entrò forte di un solo pensiero: «sono qui per portare a loro quello che è stato donato a me».

Questo imponente lavoro educativo da lui intrapreso ha fatto scoprire la proposta cristiana a migliaia di giovani come una ricchezza per il presente, perché così era per lui. Infatti, perché essa venga abbracciata o anche respinta, ma con la quale “un uomo colto, un europeo dei nostri giorni” possa confrontarsi, c’è bisogno di una mano che la porga ora. Questa mano è la presenza di una persona stupita e commossa dalla vita che vive dentro la Chiesa, che accetta la sfida che pone la circostanza che gli è data.

Normalmente questa coscienza non è scontata e si parte da ciò che manca, cercando un nuovo progetto che risponda colpo su colpo, anche nei metodi, a ciò che la mentalità dominante propone, e quasi che la vera sfida cui predisporsi come popolo cristiano sia quella di “vincere” in un dibattito sulle idee. Ma non c’è cultura senza un soggetto che riparta da ciò che lo costituisce e gli dà volto dentro la realtà. «Vivo non più io: è Cristo che vive in me», dice san Paolo ai Galati.

Proprio davanti a un’esperienza della fede come la descrive san Paolo possiamo riconoscere la vera radice di una nostra irrilevanza anche pubblica; perché è solo l’appartenenza a lui, l’esperienza concreta della sua presenza a gettarci in ogni aspetto della vita sociale, in ogni contesa, a prendere posizione, a provare a essere utili al mondo e ai nostri fratelli; senza paura di essere scomodi, di essere impopolari, di dover pagare in qualche modo la nostra testimonianza.

Anche per questo, Cristo ci ha chiamati per annunciare al mondo la sua presenza non attraverso una particolare intelligenza o coerenza morale, ma attraverso l’unità dei credenti : «Dove due o tre si riuniranno nel mio nome, io sarò con loro». Vivere l’unità è principio di conoscenza ad intra (cioè per i credenti) e ad extra (annuncio o dialogo con il “mondo”). È dunque sacrosanto il richiamo di Righetto al fare rete: se siamo già insieme perché convocati nella stessa Chiesa, adoperiamoci anche per lavorare insieme, proviamo a incontrarci, a dialogare, insieme alla ricerca di quelle forme nuove di evangelizzazione e di testimonianza che papa Francesco non manca di sollecitare dall’inizio del suo pontificato.

Per questo, con grande umiltà, desideriamo condividere la nostra esperienza di impegno nel mondo della cultura. Crediamo che la ricchezza che viviamo, che pure è una goccia nel mare, sia una possibilità per tutti da subito. L’Associazione italiana dei centri culturali infatti conta più di 170 centri culturali su tutto il territorio nazionale e nel 2023 ha realizzato, attingendo a varie modalità espressive, un migliaio di eventi, convegni, presentazioni di libri, cineforum, spettacoli teatrali, mostre e attività editoriali, mobilitando decine di migliaia di persone e incontrando le personalità più disparate. E proprio in forza di questa esperienza possiamo riconoscere come il dialogo col mondo, quello che coinvolge coloro che più direttamente partecipano al dibattito culturale, alla produzione intellettuale o artistica, non è separato dal percorso personale di autocoscienza di ogni cristiano. Davvero la cultura è la forma della nostra giornata, per come essa è modellata dalla Sua presenza.

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