A mezzogiorno, allorché risuonava il grido: “rancio... rancio...” (chissà perché i colleghi erano così restii a far suonare la tromba) non solo noi e i Sottoufficiali e la truppa ci riunivamo intorno alle fumanti marmitte da campo, ma anche, sebbene a una certa distanza, e timidamente, una piccola turba di affamati. Erano vecchi, donne, soprattutto bambini che la fame spingeva dal paese nei boschi, dove c’erano le batterie italiane, e che il gran cuore dei nostri soldati faceva sempre sperare. Si dava loro il fondo della marmitta e vari soldati davano all’uno o all’altro un po’ del contenuto della loro gavetta. In quei giorni non c’era da scialare certo, neppure per noi. Qualche bambino arrivava a raccogliere dalla polvere del terreno il poco riso che cadeva dal mestolo dei cucinieri.
Quelle scene mi recavano un profondo dolore. Di tutti quegli affamati, un giorno più, un giorno meno numerosi, ne ricordo soprattutto due, Alia e Anatolio, sorella e fratello, due bambini. Alia aveva 10 o 12 anni, era bruna di volto e di capelli, con lentiggini attorno al nasino. Anatolio non arrivava a un anno e quando lo conobbi era presso a morire di fame: diafano, biondo come la stoppa, con due poveri occhi chiarissimi, le manine esili esili e il piccolo ventre enormemente gonfio per la fame. Quasi non si muoveva più neppure tra le braccia della sorellina che con la sua piccola latta da mendica in mano, correndo qua e là in cerca di qualche cosa, lo scuoteva continuamente. La feci chiamare; a mezzo d’un soldato che parlava un po’ di russo riuscii a sapere la sua storia: il padre era di là del Don, al fronte con i Russi, né di lui si aveva notizia. La madre era malata e immobilizzata a letto. Non avevano assolutamente nulla da mangiare. Essa, Alia, era la maggiore di quattro figli; tra lei e Anatolio c’erano due cosini biondi biondi, slavati slavati, dagli occhi celestissimi che si davano da fare con le loro due lattine in mano per procurarsi anche loro qualche cosa. Poi tutti e quattro portavano quanto raccolto alla madre, e insieme cercavano di nutrirsi e tirare avanti la loro agonia.
Vari erano nel paese già i morti di fame. Alia si lasciava strappare le notizie con ritrosia. Ogni tanto gli occhi le si riempivano di lacrime. Decisi di fare di tutto per salvare la vita di Anatolio, se pure ero ancora in tempo. Pensai che se l’avessi visto avvicinarsi proprio alla fine l’avrei battezzato. L’attendente m’aiutava con una delicatezza e una gravità religiose: giorno per giorno gli preparavamo qualcosa da mangiare, cercando fosse roba possibile per lui che doveva essere stato slattato da poco. Ma spesso dovevamo dargli del cibo normale, da soldato. Mi faceva impressione vederlo addentare con la piccola bocca senza forza un pezzo di dura pagnotta cosparsa di miele (in nessun modo migliore avrebbe potuto essere impiegato il miele inviato da mia madre). Alle volte Alia se lo traeva fuori dalla scollatura dello stracciato abitino sotto il quale lo teneva, contro il proprio corpicciolo, per avere la forza di camminare di più.
Egli apriva gli occhi chiarissimi e per un po’ stava immoto, poi si accorgeva del cibo che la sorellina gli porgeva e lo afferrava con la minuscola manina bianca. Pensavamo con raccapriccio che sarebbe morto di certo. Invece non morì! Quanto è tenace la vita anche nei piccoli esseri in cui parrebbe dover cessare a un soffio! Allorché lasciammo i boschi di Lesnoje per iniziare l’avanzata, il gonfiore al piccolo ventre era quasi scomparso e Anatolio aveva acquistata una certa vivacità. Povero piccolo essere, inconscia vittima di questa immensa mostruosità che è la guerra! Che sarà stato di te dopo che noi partimmo? Sei ancora vivo oggi?
Il libro
Nel laboratorio del Cavallo Rosso
Alessandro Zaccuri
Nella gran casa di Besana Brianza lo studio di Eugenio Corti occupa un paio di stanze al piano superiore: piccole senza essere anguste, e dall’arredamento sobrio, essenziale. Tutto è restato in ordine perfetto, dalla scrivania sulla quale è stato vergato Il Cavallo Rosso fino agli scaffali nei quali è ancora oggi conservato l’archivio dell’autore lombardo. Lì, tra i documenti della fitta corrispondenza con i lettori e i molti appunti presi in vista della stesura del capolavoro, si trovano anche i tre faldoni di materiale memorialistico descritti da Giovanni Santambrogio nell’introduzione a “Il ricordo diventa poesia” (Ares, pagine 176,euro 14,00), preziosa scelta dei diari curata dallo stesso Santambrogio insieme con la moglie dello scrittore, Vanda Corti.
Non un’edizione critica, certo, ma una selezione ragionata e illuminante, concentrata com’è sugli anni della formazione di Corti, compresi tra le avvisaglie belliche del 1940 e il turbolento dopoguerra del 1948. Nato a Besana il 21 gennaio 1921 e morto sempre a Besana – nel frattempo trasfigurata nella Nomana del Cavallo Rosso – il 4 febbraio 2014, Corti è stato e continua a essere molto più di un caso letterario, come conferma la lettura del diario. A venirci incontro, da questo volume ricco di testimonianze (quelle di Luca Montecchi e Gianantonio Sanvito relative all’impegno dello scrittore per la fondazione del liceo Don Gnocchi a Carate Brianza, l’appassionato appello rivolto al lettore dalla stessa Vanda Corti, la precisa nota biobibliografica allestita da Silvia Stucchi), è il profilo di un intellettuale cattolico ancora molto giovane, ma che già al giro di boa dei vent’anni avverte fortissima la consapevolezza della propria missione.
«La Provvidenza ha dei disegni speciali su di me», annota Corti in data 21 gennaio 1941 (il giorno del ventesimo compleanno, appunto), in una pagina decisamente generosa di suggestioni. Si pensi, in particolare, alla riflessione sul «desiderio dell’amore», avvertito con un’intensità impressionante e, nello stesso tempo, «tenuto lontano a ogni costo», con un’autodisciplina destinata a diventare ancora più severa negli anni della guerra, quando Corti si aggrappa all’immagine idealizzata della bella Margherita. Un amore vagheggiato da lontano, ma che svanisce a contatto con la realtà quotidiana, dove si impone invece il legame solidissimo con «V.», che in “Il ricordo diventa poesia” viene pudicamente evocata in una sola riga. Chi conosce le opere di Corti, dal memorabile esordio nel 1947 con I più non ritornano fino alla summa di temi e di vicende consegnata al Cavallo Rosso (dal 1983 nel catalogo dell’Ares, continuamente ristampato e tempestivamente tradotto in molte lingue), ritroverà situazioni e perfino personaggi poi accolti nell’opera narrativa.
Si pensi ai bozzetti della vita di paese, con l’episodio esilarante dello zio Peppo disposto a “scioperare” perché la fiera di Santa Caterina non si svolge come dice lui, ma ci si soffermi anche sulla lunga ponderazione che porta Eugenio a presentarsi volontario per la campagna di Russia. Non a sostegno del fascismo – che Eugenio considera ormai «finito da un pezzo» – ma semmai contro il comunismo e, più ancora, per «conoscere questi popoli e queste terre cui ho intenzione di dedicare l’opera letteraria che sarà lo scopo della mia vita» (così nella nota del 3 luglio 1941). Appartiene a questa stagione, poi imperiosamente confluita nel Cavallo Rosso, la pagina che anticipiamo qui a fianco, nella quale torna a manifestarsi per un istante il profilo della madre, figura centrale nella vita e nella scrittura di Corti.
Tracce materne, del resto, affiorano di continuo dalle pagine di questo memoriale spontaneo e insieme meditatissimo, nel quale la vocazione alla letteratura viene costantemente verificata nel confronto con la filosofia, oltre che attraverso l’esplorazione della tradizione classica e contemporanea, in una gamma di reazioni che contemplano l’entusiastica scoperta di Shakespeare come la faticosa assimilazione di Proust. Spicca, su ogni altro elemento, la natura incrollabile della fede cristiana di Corti. «Ringrazio immensamente il Signore: ha guardato non a me e alla mia miseria, ma alle preghiere dei miei; e mi ha salvato tutto», si legge in data 12 maggio 1945, pochi giorni dopo la fine dei combattimenti. Adesso, superata la prova, resta da compiere l’opera.