mercoledì 16 marzo 2022
Esce il nuovo album del cantautore milanese: «Con “La rivoluzione” rifletto sulla mia generazione che ha creduto e sofferto tra lotte armate e droga ma sempre sperando. Oggi troppo individualismo»
Il cantautore milanese Enrico Ruggeri, 64 anni, sui banchi del suo vecchio Liceo “Berchet”

Il cantautore milanese Enrico Ruggeri, 64 anni, sui banchi del suo vecchio Liceo “Berchet”

COMMENTA E CONDIVIDI

La rivoluzionee La fine del mondo in un colpo solo. Arriva oggi in radio il terzo nuovo singolo e nei negozi e in digitale il 38° album della carriera di Enrico Ruggeri: La rivoluzione, appunto. Titoli mai tanto puntuali, senonché il 64enne cantautore milanese questa sorta di concept album l’ha concepito (con la collaborazione della compagna Andrea Mirò e di Massimo Bigi) in tempi non sospetti. Ai più, non certo a lui. «Il ruolo dell’artista è proprio quello di tenere le antenne ritte sul mondo e questo senza volerlo lo rende un preveggente. Del resto, gli scenari un po’ apoca-littici erano nell’aria – dice –. Semmai ogni tanto c’è una guerra più mediatica delle altre e questa oltretutto è anche più vicina a noi. Dal secondo dopoguerra comunque non c’è mai stato un periodo senza conflitti nel mondo. Stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzi». Monito lanciato anni fa da papa Francesco che in questi giorni è di tragica evidenza. Ma la guerra è “mondiale” ancor prima nella quotidianità di ciascuno.

Ed è anche questo che Ruggeri racconta nei nuovi undici notevoli brani e suonerà dal vivo in tour a partire dal 2 aprile: «La mia è stata una generazione che come nessun’altra ha vissuto mille cambiamenti: la lotta armata, l’eroina, l’Aids. Siamo partiti da Carosello e ci siamo svegliati con le bombe di piazza Fontana. Una generazione simbolo, di ribelli che sono ancora qui a fare sentire la loro voce». E canta così di vittime e colpevoli, diavolo e acquasanta, scienza e ignoranza, dell’eterna lotta tra bene e male che ci connota e affligge, come sintetizza in Glam bang (con il sodale di una vita Silvio Capeccia). Ma poi ecco la struggente e poetica nostalgia di Parte di me sul dolore di una perdita, l’umano crinale tra speranza e smarrimento di Che ne sarà di noi (in duetto con Francesco Bianconi), il disperante canto finale La mia libertà e il senso stesso del terreno esistere racchiuso in Alessandro.

Ruggeri, chi è Alessandro?

Io non né fratelli né cugini, così gli amici sono sempre stati la mia seconda famiglia. Alessandro è un mio amico dell’adolescenza che ora ha una malattia degenerativa, muove solo gli occhi. Il brano è il racconto di uno dei pomeriggi passati con lui in ospeda- le. Noi siamo qui per farci compagnia e accompagnarci gli uni gli altri.

Nel disco si evoca spesso anche una compagnia ulteriore e superiore.

E non è la prima volta. Nell’album precedenteAlmac’è Forma 21che racconta il cruciale passaggio, che per me è un inizio e non una fine. Con un occhio speranzoso verso la vita che verrà dopo.

Ne La mia libertà però allude forse a un ipotetico suicidio...

È un gioco mentale e dialettico. Io che non ho nessuna intenzione di suicidarmi ho pensato a che lettera lascerei eventualmente. Ho scelto questa suggestione alla Jacopo Ortis, ma do voce al bambino interiore le cui aspettative sono state tradite dalla vita. Anche La rivoluzione parla della differenza tra i sogni dell’infanzia e dell’adolescenza e la realtà, spesso molto diversa.

Adolescenza finita anche nella copertina del disco.

È la mia classe della quarta liceo, l’anno scolastico ’73/74 al “Berchet” di Milano. Nel disco ci sono quei ragazzi, ecco la rivoluzione di cui parlo. Niente di cruento, niente barricate, solo i sogni con la loro forza rivoluzionaria. È un album molto autobiografico.

È più difficile per i ragazzi d’oggi avere grandi sogni?

Intanto gli adolescenti arrivano da due anni terribili di Dad, di cui pagheranno le conseguenze per tutta la vita. La scuola non è andare a fare il compito in classe, ma è socializzare e crescere insieme. Al di là di questo, è chiaro che oggi ci sono soprattutto sui social dei terribili modelli individualistici. Mi sfugge che un influencer diventi mi- liardario, ma questo forse è un problema mio anagrafico. I punti di riferimento delle vecchie generazioni erano persone che non facevano la corsa solo su stessi. Raccontavano e intervenivano nella sfera sociale. La guerra del Vietnam è stata fermata anche da John Lennon quando ha cominciato ad andare negli alberghi con Yoko Ono e ai giornalisti diceva: date una chance alla pace. Anche così cambiavano le coscienze.

Come canta in Non sparate sul cantante?

Nel ’78, due anni prima del suo assassinio, avevo scritto con i Decibel un pezzo che si intitolava Superstar in cui si ipotizzava che uno ammazzasse una rockstar. Purtroppo è successo. Personaggi come Lennon erano talmente fondamentali da suscitare sentimenti estremi, follia compresa. Ma Non sparate sul cantante è anche ironico e nasce dal fatto che mio figlio Ugo stravede per i film di Sergio Leone. Frasi della canzone sono prese dai suoi western e nel finale omaggio anche Ennio Morricone.

A proposito di immagini, nel videoclip di Parte di me la si vede assorto davanti alla chiesa di Santa Maria presso San Celso a Milano. Perché?

È una canzone sulla elaborazione delle mancanze e da credente sul nostro essere quaggiù a guardare oltre ci ho anche fatto un album, Fango e stelle. E se in Glam bang canto “sono quello che non crede, sono il mistero della fede, la preghiera e la bestemmia, e la rabbia che regna, e tu sei come me”, do soltanto voce al travaglio dell’uomo. In questi anni penso molto di più ai miei genitori rispetto a quando erano in vita. La perfidia della vita a volte è proprio questa, dare per scontate le persone quando le hai accanto. L’assenza invece è spesso molto più presenza rispetto a chi c’è realmente. È forse il primo passo verso l’immortalità dell’anima.

Scendendo alla mortalità dei social, come mai è approdato anche lei a Tik Tok?

Sono andato a vedere una volta per curiosità di cosa si trattava e ho visto un mondo miserrimo. Però l’oggetto di per sé è interessante, con quei due minuti di tempo per parlare.

Ma per dire cosa?

Questo è il punto. L’oggetto di per sé è un contenitore vuoto, dipende da quello che ci si mette dentro. Tre anni fa avevo tenuto al Conservatorio “Verdi” di Milano un corso sulla storia della musica del dopoguerra, così ho pensato di trasferirle usando il linguaggio e i luoghi virtuali di oggi. In due minuti su Tik Tok ho potuto per esempio raccontare il primo album dei Led Zeppelin. Ma prima ero partito dal romanzo del ’63 di Heinrich Böll Opinioni di un clown. Oggi su Tik Tok potrebbe persino andarci Pasolini. Il punto semmai è un altro.

Quale?

In questi anni abbiamo un po’ perso il gusto della parola. Se non si legge mai un libro è difficile che si possa scrivere una bella canzone o articolare un ragionamento avendo un vocabolario di 500 parole

Colpa allora un po’ anche dei social...

Per quanto riguarda la violenza che ci si ritrova, sono senz’altro deleteri. Vince chi picchia duro per primo. E quando è partita la botta non c’è verso di ragionare. Nei primi due-tre giorni partono tutti a testa bassa, poi magari dopo una settimana non ci si ricorda più nulla. Una volta, negli anni di lotta armata tra destra e sinistra, ti sprangavano sotto casa. Oggi ti linciano sui social. E forse è meglio così.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: