Il cantautore Ron, 66 anni, 50 di carriera - .
Avevano 32 anni in due, ma tutta la grinta per cantare dal palco dell’Ariston un grido che nel 1970 sarà apparso di libertà e conquista, Pa’, diglielo a ma’. Nada e Rosalino Cellamare, il futuro Ron, erano due sedicenni pieni di speranze e con davanti (almeno) mezzo secolo di successi e notorietà. Nel testo cantato da Nada papà doveva dire a mamma che quella notte lei sarebbe andata via con il suo ragazzo «che mi vuol bene da morire», anche se la “fuitina” trovava rimedio nel finale (a scanso di censura): «C’è un velo bianco che m’aspetta». Rosalino annunciava invece un progetto meno romantico ma più consono ai tempi: «Stanotte faccio la valigia, nel portafoglio quattro lire, è giunta l’ora di partire…». Per quel ragazzino il Festival di Sanremo ‘70 avrebbe rappresentato l’esordio nella musica leggera e Pa’diglielo a ma’ il suo debutto discografico.
Ron, è il 50° anniversario di una carriera che l’ha portato a scrivere per sé dei gioielli del cantautorato e diventare autore di artisti come Dalla, Morandi, Mannoia, Berté, Oxa, Antonacci... Ricordi di una vita?
È da quando avevo 6 anni che decisi che sarei diventato un cantante. E i miei genitori hanno subito compreso che era una cosa più forte di me. Presto ho cominciato a fare i concorsi per voci nuove e li vincevo pure. A 14 anni un signore della Rca mi sentì cantare e mi chiese di portarlo dai miei genitori, fu così che ebbi il primo contratto con la grande casa discografica, che mi tenne fermo due anni: a quell’età la voce cambia, ero sotto “osservazione”… Finché un giorno entrò in classe il preside e mi fa: «Ti cerca tua madre», che spavento… avevo 16 anni.
Era già Sanremo a chiamarla?
Sì e no. La Rca mi aveva scelto per portare al Festival una canzone e io partii per Roma con papà. Ricordo la nostra emozione, nei grandi corridoi incontravamo facce già arcinote della musica leggera: Morandi, Rita Pavone, i miei futuri colleghi. Io e papà aspettammo in un ufficio ma non arrivava mai nessuno, finché finalmente entrò un tizio tutto ingessato dalla testa ai piedi, uscivano solo due occhiali e la barba: per arrivare al nostro appuntamento aveva avuto un incidente sul Raccordo Anu-lare, ma era venuto lo stesso, era matto da legare! Fu così che conobbi Lucio Dalla. Mi fece sentire Occhi di ragazza, che però fu bocciata alle eliminatorie. Niente Sanremo. Tornammo tristi a Garlasco e io ripresi la scuola. Due settimane dopo altra chiamata per una seconda canzone e questa volta era proprio Pa’ diglielo a ma’ di Franco Migliacci e Jimmy Fontana. All’epoca i brani erano eseguiti da due cantanti e io mi trovai in coppia con Nada, eravamo i due più giovani nel panorama musicale italiano.
E lì tutto ebbe inizio. Ma si rendeva conto del futuro che l’aspettava?
Io so che mi buttai sul palco e tirai fuori la passione di tutti quegli anni passati a sognare quell’istante. Arrivammo settimi, andò molto bene. L’anno dopo fu quello di Il gigante e la bambina, musica di Lucio Dalla e testo di Paola Pallottino, il mio primo grande successo discografico.
Ma ecco subito la scure della censura: proprio il testo, una storia a tinte fosche che finiva con l’uccisione della bambina, vi costrinse a modificare alcune strofe.
Con il testo originale la televisione e la radio non trasmettevano la canzone, così anziché «il gigante adesso è in piedi con la sua spada d’amore e piangendo taglia il fiore» dovemmo sostituire «ma nessuno può svegliarli da quel sogno così lieve, il gigante è una montagna, la bambina adesso è neve». Avevo ben colto la violenza che descriveva il testo: era una denuncia in rime, raccontata con un linguaggio così poetico e bello che la gente colse solo questo aspetto, del lato oscuro non si era accorta. Comunque accettai di cantarla nella nuova versione… Certo oggi non succederebbe più, ora si canta davvero di tutto.
Non furono sempre facili, gli anni ‘70.
L’Italia cambiava a livello sociale e ideologico, ci fu un periodo veramente brutto, le persone che portavano avanti le loro idee politiche decisero che la musica leggera doveva essere censurata, avevano diritto di esistere solo gli autori che esprimevano tematiche sociali. Morandi si diede al contrabbasso, io diventai arrangiatore. Stavo in studio con Dalla e altri grandi della musica e lavoravo per loro: l’idea di fare un disco non avrebbe dato alcun esito. La svolta arrivò di nuovo nel 1979 in quel fantastico disco e tour che fu Banana Republic, quando Dalla e De Gregori mi chiamarono in stadi di decine di migliaia di persone anche a cantare. Fu un trampolino di lancio clamoroso.
E l’anno dopo arrivò Una città per cantare: Rosalino per la prima volta diventava Ron.
Il periodo brutto era passato, aveva fatto danni ma alcuni cantautori erano venuti fuori in modo prodigioso, da Venditti e De Gregori. Intanto anch’io ora avevo bisogno di cantare ed esprimere nuove idee, non politiche però. La musica per me era “volo”, non mi andava di sporcarla. A quel punto fu Lucio Dalla a diventare il mio autore di testi, poi man mano me li scrissi da solo. E volai...
A Sanremo quest’anno Tosca, con cui lei vinse il Festival nel 1996 ( Vorrei incontrati tra cent’anni), ha trionfato nella serata dei duetti con una versione originalissima di Piazza Grande.
È stata la cosa più bella di tutto il Festival, grazie anche alla straordinaria esibizione con Silvia Perez Cruz, cantante di flamenco. Molto intenso pure il brano portato da Tosca, Ho amato tutto, ritengo che sia la più grande cantante che abbiamo attualmente in Italia.
«La chitarra è la mia ala, senza non volo », ha detto spesso. È riuscito a volare in questi mesi di isolamento da Coronavirus?
Nella vita sono sempre rimasto a Garlasco, mia mamma ha 93 anni e la sua porta dista dalla mia venti metri, siamo fortunati: in questi mesi ci siamo visti tutti i giorni, abbiamo mangiato insieme e anche con le famiglie di mio fratello e mia sorella siamo rimasti uniti. D’altra parte sono uno che non ha mai sofferto la solitudine, stare a casa non mi pesa. Anzi, ogni volta che dopo i concerti mi capitava di poter passare lunghi periodi a Garlasco ero felice. Ciò che dà claustrofobia invece è il virus, la separazione dai propri cari, è questo che ha sconvolto le persone. La famiglia allora è importantissima, uniti si supera tutto... Musicalmente però questi mesi mi hanno tarpato le ali, faccio fatica a scrivere, mi siedo al piano o prendo la chitarra ma non scatta la scintilla magica, devo capire perché. Spero che alla fine questo silenzio musicale troverà un senso.
«E come potevamo noi cantare?», scrisse Salvatore Quasimodo dopo la seconda guerra mondiale. I poeti avevano appeso la loro cetra alle fronde dei salici. Forse sta provando qualcosa di simile?
Quando c’è una guerra, cantare fa vincere le battaglie perché si è tutti insieme. Il virus è peggio perché ti costringe alla distanza e sei solo. Certo, ho cantato brani in Rete e mi sono divertito, ma manca l’humus della frequentazione, l’abbraccio, il contatto fisico. Presto forse ci incontreremo, ma non potremo più stringerci...
Eppure prima lamentavamo lo stress di una vita frenetica e desideravamo più silenzio. Ora invece ci fa paura?
Dover vivere in solitudine vuol dire anche fare i conti con se stessi e non è facile. Ne usciremo migliori? Mi auguro di sì ma non è detto, l’uomo ha una dura cervice, scorda presto le lezioni, subito si riadatta alle cose belle della vita come se fossero scontate. Nel mio caso, fondamentale è stata la fede: in questi mesi ho letto tutto ciò che succedeva alla luce del Vangelo e ogni giorno mi hanno nutrito lo spirito il Rosario da Lourdes e la messa dal Divino Amore in onda su Tv2000. Così come ripercorrere le meditazioni del teologo Silvano Fausti, un tempo confessore di Carlo Maria Martini: riusciva a immergerti nella Parola con estrema semplicità. A volte le cose sono più lineari così come sono, senza troppe spiegazioni. Il Vangelo poi è lampante.
Quando sarà di nuovo possibile, come festeggerà i suoi primi 50 anni di grande musica?
Con una compilation che li ripercorrerà tutti, è pronta e doveva uscire a febbraio ma abbiamo dovuto rimandare. Spero che non sia molto lontana la fine di questo incubo, anche perché mi preoccupa il destino di migliaia di persone che lavorano per lo spettacolo, la loro sussistenza dipende dai concerti. Il premier Conte ha appena pronunciato per la prima volta la parola «musica», speriamo che venga in soccorso della cultura.
Un bilancio di questi primi 50 anni di carriera?
Quando cominciai ero un ragazzino, ora sono quasi tra i più vecchi. Ma resto un ottimista, in bilico tra le parole speranza e perdono. Prima di questo virus non eravamo mica messi bene, eravamo “schifati” di tutto, eppure volevamo tutto lo stesso. Ora ci vogliono poche parole: perdono, a noi stessi prima di tutto ma anche agli altri. E questo entrerà certamente nel Ron del poi.