Si racconta come mai prima, Ron. E si lascia raccontare. Con quel «coraggio di dire» che gli veniva quando scriveva le lettere, «che non si usano più». Come quelle che si scambiava con Caterina, una giovane mai più incontrata, se non per via epistolare, che gli ha ispirato la canzone Annina. «Parla di una ragazza che non si piace, che non si sente a suo agio con la gente», spiega. Di Ron invece parla Melodramma pop con le parole di Guido Morra (autore del testo): «Gli anni avanzano e avanza la speranza di Ron / quello che sono adesso mi viene incontro / allora scendo e accetto il confronto». Quello con se stesso, che a decifrarlo «ci vorrebbe Freud e per scriverlo James Joyce o meglio ancora Totò».
Ma intanto ci prova proprio Rosalino Cellamare, diventato Ron grazie a un guizzo onomastico di Dalla ai tempi di Banana Republic, a raccontarsi in questo riuscito ritratto policromo e polifonico (con le collaborazioni, tra gli altri, di Maurizio Fabrizio, Bungaro, Niccolò Agliardi, Leo Gassman, Giulio Wilson autore della bellissima I gatti che chiude l'album e Paolo Fresu che con la sua tromba impreziosisce la struggente Un'astronave nel cielo) dedicato al padre e intitolato Sono un figlio: primo disco di inediti (tredici) dopo otto anni, per celebrare il 50° di carriera (ma sono ormai 52, gli anni, da quel Sanremo del 1970 in coppia con Nada con Pa’ diglielo a ma’), da oggi nei negozi e sulle piattaforme su etichetta Le Foglie e il Vento e distribuzione Sony.
Ron, un disco che celebra le origini. Con gratitudine, da figlio, come dice il titolo.
Quando due persone stanno insieme per tutta la vita è una cosa meravigliosa e penso che si possa vincere una battaglia così solamente con la fede. Su questo sono sicurissimo. E infatti nel brano La stessa persona un verso recita: “Beato chi ha un po’ di fede e nell’amore ci crede”. E in Abitante di un corpo celeste , il primo brano uscito ad anticipare l’album, canto: “Dall’amore son nato e lui vale”.
Per questo nel brano omonimo che apre il disco racconta la storia di suo padre Savino e dell’incontro con sua madre?
Sì, i miei genitori si sono conosciuti durante la seconda guerra mondiale. Mio padre scappava dalla milizia tedesca, ha scavalcato un cancello e mia madre la mattina dopo l’ha trovato in cantina dove si era rifugiato. È rimasto in casa con i mie nonni e da quell’incontro è nato tutto, me compreso.
E che figlio è stato lei?
Ero una persona apparentemente dolcissima, ma da ragazzo facevo anche cose allucinanti, a discapito dei miei compagni di giochi. Una volta ho buttato un mio compagno dentro a una cisterna per il gasolio, per fortuna vuota. Ma non avevo certamente caratteristiche da bullo. Anzi, sono stato bullizzato. Alla fine delle elementari dei ragazzotti hanno iniziato a prendermi a pedate. Non ho mai detto nulla, ma ho sofferto tantissimo. Poi, non so perché, alla fine dell’anno mi hanno chiesto scusa e forse questa è la differenza che c’è con ciò che succede oggi con certe forme di bullismo.
E a lei manca un figlio?
Ho un nipotino nato da poco che si chiama Gioele e questo mi ha fatto un po’ pentire di non avere avuto un figlio. I bambini sono esseri fragili, ma anche forti, che hanno bisogno dell’amore dei propri genitori.
Il disco è tutto un lungo e intenso inno all’amore. Anche nei confronti della Terra...
In Abitante di un corpo celeste canto il nostro pianeta, questo corpo celeste a cui gli uomini stano facendo di tutto.
Fino ad agitare la minaccia di una guerra nucleare...
Non possiamo immaginare un’altra cosa del genere. È già successo e forse non è servito come monito. Oggi non ci sarebbe più nessuna possibilità di vita. Non può essere, mai. Abbiamo appena conosciuto la pandemia...
Lei come l’ha vissuta?
Passavo di fianco al pianoforte e alla chitarra e scappavo via ogni volta. Stavo quasi per impazzire. Poi piano piano ho cominciato a chiamare persone che stimo molto e autori anche sconosciuti per fare questo disco. Così ho ritrovato la conferma che la musica mi salva sempre. Anche dal Covid e dalle volte che sono tornato da Sanremo.
È arrabbiato con il Festival?
Ci sono state otto volte e ne ho avuti di bellissimi. Certo, anche di disastrosi e tornavo con grande tristezza. Come quando cinque anni fa sono stato eliminato con L’ottava meraviglia che mi sembrava una bella canzone.
Pensa di tornarci? L’hanno chiamata per il prossimo?
Non mi hanno mai invitato. Ma il problema del festival della canzone italiana è che mancano proprio le canzoni. Pensiamo per esempio a Il cuore è uno zingaro, era una grandissima canzone. Ora invece si punta tutto sui personaggi. Io non ce l’ho con Sanremo, ma mi piacerebbe che tirasse fuori la musica.
Ma ci sono nuove leve nel pop italiano o ci si deve affidare al rap?
Beh, seppure ci fossero già dei cantautori che rappavano adesso ci troviamo davanti a un fenomeno dilagante. Alcuni rapper sono anche molto bravi, ma il problema è che mancano le canzoni. Non riesco a sentirne una sola che mi emozioni davvero. Non è che debba essere per forza lacrimosa, mi basta che sia bella. Con questo non voglio dire che ci siano in giro brutte canzoni, ma si compone solo al servizio del rap dove a essere più importante è il testo. Per me la parola stessa musica è sinonimo di vita, è essere nato.
Qual è la sua canzone preferita in oltre mezzo secolo di carriera?
Ce n’è una, ma non l’ho scritta io. È Una città per cantare, cover di The Road , brano dell’americano Danny O’Keefe (folksinger del ’43, curiosamente coetaneo di Dalla che ha curato la versione italiana del brano, cantato anche da Jackson Browne, ndr ). È la canzone che mi serviva in quel momento, mi rappresentava.
Anche in questo disco ha voluto una cover...
È un brano di Finneas O’Connell, Break my heart again , che ho scoperto durante il lockdown. Non avendomi dato la possibilità di fare un mio testo in italiano, con mia sorella Enrica Cellamare ho adattato quello originale e riarrangiato la sua versione al pianoforte, molto minimale. A Finneas è piaciuta molto.
Collaborazioni e anche un duetto. Com’è nato?
Quando ho visto Leo Gassman a Sanremo due anni fa sono rimasto colpito dalla sua bravura. Doveva tornare al festival l’anno dopo, ma non è stato preso anche se aveva vinto tra i Giovani. Un giorno è venuto nel mio studio a Garlasco e mi ha fatto sentire alcuni suoi pezzi tra cui Questo vento, l’unico duetto del disco. Parla di un padre e un figlio, due generazioni con la voglia di stare insieme e di imparare l’uno dall’altro. Ho voluto che fosse lui a scrivere la sua parte.