venerdì 8 settembre 2017
La dinastia degli zar e il ruolo della Russia tra l’Europa e l’Asia
Lo zar Pietro I

Lo zar Pietro I

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È noto che non bisogna attualizzare la storia; eppure, lo è altrettanto che la vecchia massima secondo al quale «tutta la storia è storia contemporanea» non perde mai di smalto, anzi si rinnova di continuo. Oggi, tutti s’interrogano sul passato della Russia in funzione del suo presente e soprattutto del suo (e nostro) futuro. I dati e le notizie che ci arrivano dalla Cina e dal New Silk Road autostradale-ferroviario- navale da essa promosso attraverso Eurasia e Oceano indiano per collegare Pechino all’Oceano Atlantico ci obbliga ad esempio a rivedere tutti i nostri convincimenti sul Novecento. Non aveva, tale secolo, segnato nel mondo la definitiva vittoria della globalizzazione liberal-liberista? E da dove mai esce, allora, questo mondo nuovo alla guida del quale si candida con forza una potenza comunista? È l’ultima del globo, si dice: poi non ce ne sono più. Intanto non è troppo vero; ma, anche se fosse, è potentissima e immensa. D’altronde, la Repubblica popolare cinese è culturalmente molto occidentalizzata: è la stessa fonte alla quale deve il suo comunismo, l’Unione Sovietica. Ma ciò rinvia alla storia della Russia, l’autentica cerniera tra Oriente e Occidente, tra Europa e Asia. La Russia era, tra X e XI secolo, il paese di Rus’, l’area dei grandi fiumi che scendono dal Nord per sfociare nel Mar Nero e nel Mar Caspio e che, popolata da slavi pagani, era un drammatico territorio di scontro per i germani scandinavi e gli altaici che venivano da est.

La cristianizzazione della Rus’ e la nascita dei grandi principati guerrieri e mercantili sulle sponde di quei fiumi è una delle realizzazioni dell’impero bizantino e della Chiesa ortodossa greca. Ma verso il XV secolo i “granprincipi” di Mosca, che si stavano liberando dalla tutela dei tartari di Kazan eredi dell’Orda d’Oro, presero con interesse a guardar alle vicende di quella Costantinopoli alla quale da più di 500 anni la terra russa inviava schiavi, guerrieri mercenari, legname, miele, cera, pellicce e ambra. Ormai Costantinopoli non c’era più: c’era Istanbul, dominata dai turchi ottomani cugini dei tartari di Kazan: Istanbul, dove la Vera Fede cristiana – già inquinata a Occidente dai barbari eretici latini – languiva sotto il tallone musulmano mentre il khan turco aveva preso possesso dei palazzi imperiali osando anche proclamarsi erede dell’impero romano. Ma l’erede diretto di Costantinopoli era il ducato di Moscovia, al quale guardavano ora tutti gli ortodossi che non speravano nulla dal papa di Roma. E al granprincipe di Mosca sarebbero dovuti spettare gli onori e le insegne di nuovo Caesar, lo Zar. Si stava profilando un’alleanza geopolitica e culturale tra Mosca e Isfahan. Si avviava così un “Grande gioco” fra tre sterminati imperi siti nel macrocontinente eurasiatico.

I principi russi che avevano rivendicato il titolo di Zar s’impegnarono a far di Mosca la Terza Roma dopo quella antica e quella nuova, Costantinopoli. Ma il loro impero, così periferico se lo si guardava dal Mediterraneo, acquistava un ruolo essenziale se da Mosca si spingeva lo sguardo verso l’est e verso il sud, la Siberia e l’Asia centrale. Una dinastia di sovrani crudeli e spregiudicati che assunse il potere nello splendido Cremlino di Mosca nel 1613 e vi dominò, alternando la sua sede con la nuova città baltica di San Pietroburgo da essa stessa fondata, fino al 1918, si assunse il compito immenso di far da mediatrice tra il Nord e il Sud, l’Oriente e l’Occidente. I Romanov. Simon Sebag Montefiore, esperto di storia russa ha pubblicato sulla grande dinastia dei signori di Mosca e fondatori di San Pietroburgo una grossa monografia che, tradotta in italiano I Romanov 1613-1918 (Mondadori, pagine 964, euro 40,00). È senza dubbio un libro dotto ma di straordinaria attualità tematica. Finita la lettura si capirà meglio il ruolo internazionale della Russia di Putin ma anche la ragione per la quale la galleria dei “Grandi padri della patria” russa include, tra Ivan IV “il Terribile” e Stalin, almeno due Romanov: Pietro il Grande e Caterina II. La Russia del primo Seicento era ancora un paese asiatico, cristiano-ortodosso, strettamente legato all’eredità bizantina ma situato tra il mondo persiano e quello turco-mongolo per tradizioni e vita socio-economica.

Fu un sovrano della dinastia Romanov, Pietro detto “il Grande”, a rinnovarne e occidentalizzarne fra Sei e Settecento i costumi assumendo lo stretto controllo della Chiesa e obbligando la barbara aristocrazia dei guerrieri e proprietari terrieri, i “boiari”, ad europeizzarsi (via anche la barba e gli abiti all’asiatica). Pietro fondò la cantieristica navale russa imponendo la sua egemonia sul Baltico, attraverso San Pietroburgo. Con l’appoggio commerciale e tecnologico soprattutto inglese e olandese e combattendo i turchi ottomani, Caterina ne proseguì l’opera; e le potenze occidentali furono costrette a guardare ormai alla Russia come una di loro, cosa che si affermò allorché l’impero russo fu (1812-1815), uno dei responsabili della vittoria contro Napoleone. D’altra parte l’accordo marittimo, commerciale e diplomatico con l’Inghilterra non era destinato a durare nella misura in cui sia Mosca sia Londra aspiravano al dominio dell’Asia: e la corsa ad esso fu la sostanza del “Grande gioco” avviato nell’Ottocento tra i russi che da nord avevano come obiettivo l’Asia centrale e i britannici che aspiravano ad ampliare i loro domini indiani fino all’Indo Kush. Per questo Francia, Inghilterra e Germania preferirono appoggiare e mantenere in piedi l’ormai fatiscente impero ottomano che avrebbe comunque impedito ai russi d’insediarsi sulle sponde del Mediterraneo. Solo la crescita della potenza tedesca dopo il 1870 modificò questo quadro e condusse a un rovesciamento delle alleanze in forza del quale la Russia si alleò con la Francia pacificandosi con l’Inghilterra. Svolta nefasta peraltro, quella, che aprì la porta allo scenario della prima guerra mondiale. Dal conflitto l’ultimo sovrano Romanov, Nicola II, si aspettava di ottenere il possesso d’Istanbul e di stabilire la sua egemonia sul mondo slavo e ortodosso. Ma la coalizione nella quale egli era entrato avrebbe vinto la guerra, nel ’18: l’anno prima, però, sconfitto dalle armate tedesche e rovesciato dalla rivoluzione bolscevica, egli avrebbe perduto la corona e la vita.

D’altro canto, il libro di Montefiore dà ampio spazio ai mutamenti interni della società russa, passata in tre secoli dalla servitù della gleba attraverso riforme spesso radicali e coraggiose – lo Zar Alessandro II perdette la vita in una attentato per averle risolutamente sostenute – e da un’economia agricola alle soglie dell’industrializzazione. Eppure il libro si finisce di leggere come un romanzo. L’autore fonda la sua esposizione storica con una serie immensa di notizie e racconti: complotti, amori, tradimenti, avventure. Chi conosce la grande letteratura e la grande musica della Russia otto-novecentesca troverà qui infinite ragioni di appassionarsi a una storia terribile ma affascinante dentro cui hanno posto la sinistra vicenda di Rasputin e la gloriosa epopea dell’Ermitage di San Pietroburgo. E forse, qualora càpiti dopo questa lettura di visitare Mosca si comprenderà il paradosso dei negozi nei quali si vendono, insieme, le icone dell’ultimo Zar nelle vesti di santo della Chiesa ortodossa e i ritratti a colori di Stalin.

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