Gianni Rivera domani compie 80 anni - Ansa
Domani il grande n. 10 del Milan e dell’Italia compie 80 anni e ha ancora diversi progetti: «Tavecchio mi voleva ct, ho scritto a Gravina e se mi chiama io ci sono Piano B, il Bari. Il calcio di oggi? Troppo fisico e schiavo dei procuratori» Domani saranno 80 primavere per l’eterno golden boy del calcio italiano, Gianni Rivera. Una leggenda nazionale, pardon mondiale, per cui vale un dato su tutti per comprendere la portata del talento unico e irripetibile: esordio in Serie A nel 1958, a 15 anni, nell’Alessandria, la squadra della sua città: «Abitavo a cento metri dallo stadio Moccagatta e ho cominciato palleggiando sul piazzale del campo sportivo con mio padre che voleva fare il calciatore ma era figlio di contadini e ha dovuto ripiegare sul posto fisso in ferrovia», ricorda il campione alla vigilia del traguardo speciale.
Storia di un bambino prodigio che poteva non nascere
Poi il passaggio al Milan di cui divenne la bandiera per due decenni, 12 stagioni da capitano coraggioso e carismatico vincendo tre scudetti, 2 Coppe dei Campioni e un titolo mondiale per club. Nel 1968 è campione d’Europa con la Nazionale (con cui disputa quattro Mondiali, 60 presenze e 14 gol segnati) e nel ’69 France Football lo incorona con il Pallone d’oro. Rivera fa parte dell’11 di sempre con più presenze nella massima serie (527), costellate da 128 gol, record che gli vale ancora oggi lo scettro di miglior realizzatore tra i centrocampisti nella storia del calcio italiano. Una storia, che ha rischiato di diventare il titolo di un libro di Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato. I suoi genitori, Teresio e Edera, il 22 gennaio 1942 avevano messo al mondo «una bambina bellissima, Maria Luisa, purtroppo condannata fin dalla nascita dal Morbo blu (allora malattia cardiaca rara, un caso su un milione). A nove mesi non riuscì a farcela, lasciò la nostra terra senza poterne scoprire la bellezza e la malvagità», scrive struggente nella sua autobiografia, Gianni Rivera, ieri e oggi, curata e edita dalla moglie Laura Marconi. «Nostro figlio, Gianni jr ha avuto gli stessi problemi di Maria Luisa ma per fortuna la medicina era andata avanti e la cosa si è risolta per il meglio. Gianni jr è nato lo stesso giorno di quella mia povera sorellina, il 22 gennaio, e io l’ho considerato come un segno divino». Il Cielo e poi Eupalla, la divinità laica del calcio, hanno poi voluto che arrivasse quel predestinato dei campi di gioco, cantato dal poeta riveriano Andrea Maietti nel quasi mistico Nato a Betlemme. Il calcio perduto di Gianni Rivera (Limina). Infatti, dopo i giorni bui della disperazione, mamma Edera proclamò: «Chiusa una porta si apre un portone» e il 18 agosto 1943, dopo una delle frenetiche corse sulla bicicletta di Teresio per mettersi al riparo dai bombardamenti, diede alla luce il suo Gianni, che per mancanza di santo nel calendario venne battezzato Giovanni. « Il mio vero nome è quello, Giovanni, come il nonno, ma l’ho scoperto quando ho fatto il primo documento ».
Il Milan una fede e Gianni il suo profeta
E in questa lunga storia d’amore per la leggenda del Milan, non si può non ricordare un altro nonno, quello dell’attore Diego Abatantuono che ricorda : «Sono milanista da quando raccolsi da terra il portafoglio di mio nonno e dentro c’erano le foto di Gianni Rivera e quella di Padre Pio. Il nonno mi disse: uno è un uomo che fa i miracoli, l’altro un popolare frate pugliese». Blasfemìa che rientra alla voce il Milan è una fede e Rivera il suo profeta. Un sinistro divino quanto quello di Maradona, anche se con il destro segnò il gol della vittoria nella “partita del secolo”, la semifinale dei Mondiali di Messico ‘70, l’epica Italia-Germania 4-3. «Quel gol se non lo avessi rivisto alla televisione non avrei mai saputo di averlo fatto con il destro». Con il mancino poteva anche scrivere e sul campo ha disegnato traiettorie che hanno sovvertito tutte le teorie geometriche. «Rivera è’ l’unico calciatore che ho visto nella mia lunga carriera capace di lanciarti e metterti la palla sui piedi stando girato di spalle», ricordava con affetto e ammirazione l’ex milanista Pierino Prati prima di volare via per sempre. Un colpo unico, da maestro il “lancio di spalle” che non rientrava nel repertorio del suo antagonista, l’uomo della staffetta azzurra, Sandro Mazzola.
La staffetta? Una follia, però con Mazzola massimo rispetto
«Ma lui non era un 10, un regista come me, Mazzola giocava da punta. Per ragioni puramente mediatiche e di comodo hanno voluto farci passare per Coppi e Bartali, ma gli è andata male, noi non abbiamo mai litigato e siamo stati capaci di coesistere pacificamente, con il massimo rispetto reciproco, dal primo Mondiale del 1962 fino all’ultimo del ‘74. In Messico l’altitudine deve aver giocato qualche brutto scherzo a chi doveva decidere. Mazzola anche nella finale con il Brasile alla fine del primo tempo rientrando nello spogliatoio si tolse le scarpe convinto che toccasse a me entrare in campo…». Niente nemici e solo un allenatore per amico, il Paròn, Nereo Rocco. «A volte penso che se Rocco vedesse il calcio d’oggi, con questi che invece di andare avanti passano sempre indietro il pallone mi chiederebbe: “Gianni, ma che succede, hanno cambiato il regolamento?” - sorride di gusto -. Col Paròn ridevo sempre e mi divertivo a vederlo imprecare contro il vice, Bergamasco, che si portava gli assi all’ultima mano del suo gioco preferito, dopo il calcio, il ciapa no». Il tressette a perdere, giocato da un vincente come Rivera che in campo non ricorda di aver mai incontrato la sua “bestia nera” in un terzinaccio picchiatore o un mediano fuorilegge.
Solo uno ha provato a fermarmi, l'arbitro Concetto Lo Bello
«L’unico capace di fermarmi lo sanno tutti su, è stato un arbitro, anzi l’Arbitro -sorride ironico – Concetto Lo Bello con me stabilì svariati record: a Bari mi fischiò una punizione a favore, si prese due minuti per far piazzare la barriera e poi quando capì che da quella posizione potevo far gol fischiò la fine del primo tempo». Rivera precursore in tutto, perfino nello showbiz. Prima di danzatore a Ballando con le stelle è stato il primo calciatore in carriera conduttore televisivo. «Era Caccia al 13, in onda su Telemilano. Parlavo di calcio, invitavo anche gli arbitri e disquisivo con scrittori e giornalisti fuoriclasse come Beppe Viola».
Meglio Beppe Viola che il fustigatore Gianni Brera
Con Beppe Viola rimane la storica intervista sul tram per San Siro prima di un derby dove dalla tribuna stampa a marcarlo a uomo c’era la penna sferzante dello scriba massimo del folber, Gianni Brera fustigatore di quel “10” idolo delle folle che aveva ribattezzato l’Abatino. «Magari chissà, con il tempo Brera sarebbe rinsavito nel giudizio, comunque le polemiche alimentate dalle critiche nei miei confronti gli hanno regalato una celebrità superiore a quella che sperava…Abatino? Sono cresciuto in oratorio e grazie a padre Eligio ho conosciuto “Mondo X”, la carità cristiana che si fonde con l’impegno nel sociale, che poi ho trasferito anche nel mio lungo corso da parlamentare. Vado fiero dei miei vent’anni di calcio, quanto i 22 anni di politica». Il senatore e totem della Democrazia Cristiana Giulio Andreotti sosteneva che il “potere logora chi non ce l’ha”. «Andreotti aveva ragione su questo e su molto altro. La Dc mi ha accolto e mi ha sempre sostenuto, pur non avendo mai preso la tessera del partito». Promosso dal Palazzo della politica dove Rivera ha incrociato il Cavaliere che gli chiuse le porte del Milan. «Chi è stato davvero Silvio Berlusconi? Una persona che ha pensato molto a se stesso e poco al bene del Paese. Nel Milan se c’era qualcuno che potesse fargli ombra come il sottoscritto non lo voleva. Ha fatto così anche con Paolo Maldini. Ora gli americani hanno fatto peggio con Paolo, l’hanno cacciato perché volevano vincere senza dargli le risorse necessarie per farlo.
Tavecchio mi voleva ct della Nazionale, se ora Gravina mi chiama io ci sono
Destino delle bandiere, essere scomodi e invisi al Palazzo del calcio. «Però l’ex presidente della Figc Carlo Tavecchio dopo Ventura mi voleva ct della Nazionale, ma qualcuno pose il veto perché non avevo ancora preso il patentino da allenatore… Per altri tecnici invece hanno lasciato correre». Tipo per Roberto Mancini che ora ha lasciato libero quel posto di ct. «E io ho appena mandato un messaggino al presidente della Federcalcio Gravina dicendogli che se vuole ci sono. Ho 80 anni è vero, ma scusate: Paul McCartney, Mick Jagger ma anche il nostro Gianni Morandi fanno concerti tutte le sere, e allora io non posso andare in panchina? Tra l’altro faticherei molto meno di quando giocavo, non devo neppure correre». Se il sogno di allenare non si avverasse il piano B è ancora prendere in mano il Bari. «Con una cordata di imprenditori locali se il Bari fosse stato promosso in A la trattativa con De Laurentiis era bene avviata, resta comunque in piedi». Il nostro calcio invece barcolla, oggi un 15enne che debutta in Serie A è un’utopia e la colpa dicono che è sempre dei troppi stranieri. «No, la colpa è degli italiani che fanno scelte scellerate. Due secondo me sono i mali principali del nostro campionato: in campo si gioca un calcio troppo fisico, lontano anni luce dalla mia filosofia, e fuori imperano i procuratori che tengono in pugno i loro assistiti e spesso anche i club. Un mondo scandaloso? No, io lo dico da tanto: il calcio non è né meglio ne’ peggio, è come tutto il resto».