Ricostruzione di vita quotidiana al tempo dei Cro-Magnon (Paleolitico superiore, circa 25.000 anni fa) - Tips
Come negli studi post-coloniali, anche in quelli che potremmo definire post-maschilisti la pars destruens sembra essere ancora molto più convincente della construens. È senz’altro condivisibile la ricerca di un approccio che in ogni ambito – dalla storia alla sociologia, dall’arte alla filosofia e perfino alla scienza – cerchi di superare pre-giudizi e pre-comprensioni derivanti di un’impostazione “maschiocentrica” (neologismo brutto ma non privo di efficacia), così come lo è, nell’ambito appunto del postcoloniale, l’ambizione di deoccidentalizzare il pensiero. È il grande filone che viene definito, in senso esteso, degli studi subalterni, e che da tempo si sta muovendo in varie direzioni in tutti i campi del sapere. Inclusa l’archeologia, come ben esemplifica l’ultimo lavoro della storica francese Marylène Patou-Mathis: in La preistoria è donna. Una storia dell’invisibilità delle donne, recentemente pubblicato da Giunti nella collana “i fondamenti” (pagine 290, euro 20,00), la specialista del comportamento dei neandertaliani parte da un assunto difficilmente contestabile: «La preistoria è una scienza giovane, che fa la sua comparsa soltanto a metà dell’Ottocento. È probabile che i ruoli attribuiti ai due sessi nei primi testi di questa nuova disciplina abbiano a che vedere più con la realtà dell’epoca che con quella del tempo delle caverne». Per lungo tempo in effetti è stata data per acquisita una bipartizione dei ruoli, con l’uomo dedito alla caccia e alla guerra e la donna alla cura della famiglia, che proiettava sul Paleolitico esattamente la differenziazione sociale dell’Ottocento occidentale, a sua volta erede di una lunga storia del pensiero. Si tratta di una distorsione prospettica che trova esatti correlativi anche in altre scienze umane; per esempio, sempre nell’Ottocento, era prassi comune interpretare la gerarchia del potere (politico ed economico) allora vigente come un riflesso di un’asimmetrica gerarchia “naturale” dei popoli – naturalmente con i bianchi europei in posizione dominante. In campo archeologico, il nocciolo dell’argomentazione della Patou-Mathis è che non abbiamo alcuno strumento per attribuire specificamente a uomini o a donne le attività preistoriche di cui siamo a conoscenza grazie ai reperti, dalla caccia alle pitture rupestri. È la convincente pars destruens, appunto: tuttavia, nella pars construens, la ricerca di tracce che possano consentire un pieno ribaltamento di prospettiva appaiono rade e sparse, comunque ancora insufficienti. Se è interessante rimarcare come in alcune pitture rupestri raffiguranti mani in negativo, quelle riconducibili a donne siano almeno quante quelle maschili, oppure rilevare come su alcune ossa femminili compaiano segni di traumi che possono far pensare all’uso di armi, nella maggior parte dei casi i reperti non consentono attribuzioni né a un genere né all’altro. Né convince il ricorso a testimonianze molto più tarde, come quelle celte o scite del V secolo a.C., tentato dalla storica. La Patou-Mathis sembra essere consapevole dei rischi di ideologizzazione che il suo discorso deve affrontare, criticando apertamente alcuni eccessi anche della sua disciplina negli anni del femminismo nascente. Tuttavia, liquida forse un po’ troppo sbrigativamente concetti chiave dell’archeologia del secondo Novecento, come quello della Dea Madre sostenuto con argomentazioni assai forti e convincenti da Marija Gimbutas, come «un’ipotesi tra le altre». Tuttavia una revisione della nostra comprensione del passato, e del differente ruolo che possono avere avuto le donne nel suo divenire, è più che opportuno, necessario. La ricerca non ha mai un punto di arrivo definitivo, è un pendolo in continua oscillazione. La ricerca di un punto di sintesi o di equilibrio, che rimane sempre provvisorio e parziale, è continua: fino a quando una nuova oscillazione del pendolo non costringa a rimettere tutto in discussione. E questo è il carattere infinito della ricerca.