L'artista Raul Gabriel - archivio
La riflessione di Roberto Righetto sulle difficoltà del mondo cattolico nel rispondere alla contemporaneità e alle sfide che propone è il sasso impietoso e necessario da lanciare nella palude le cui acque stagnanti sono un habitat perfettamente congeniale per un numero cospicuo di fruitori a vario titolo del “purché nulla cambi”. Le parole di Sequeri, «molta morale, poca comunità, zero cultura», stigmatizzano bene la situazione. Morale da intendersi come forma ideologica semplificata di una rivoluzione addomesticata la cui spinta è considerata un fastidio sconveniente per chi vive l’ambito religioso come la cornucopia di prebende e titoli distribuiti a funzionari di ogni sorta rispetto a cui il Klamm di Kafka fa sorridere. Anche il mondo laico è angustiato da miriadi di contraddizioni, ma perlomeno se qualcuno detesta qualcun altro, per non dire lo odia, non lo fa ostentando il ramoscello d’ulivo, utile rappresentazione di ipocrisie spicciole spacciate per santità. Comunità ce ne sono tante di ogni genere e nome, a volte indistinguibili da normali gruppi di interesse in cui il plus di fede organica alle necessità del gruppo contribuisce in modo rilevante ad oliare carriere che in altri contesti sarebbero improponibili. Per ciò che riguarda la cultura lo zero vale come un infinito di convenzioni strumentali affogate nell’ansia mistica dei più progressisti, per i quali rispondere alla contemporaneità è l’occasione irrinunciabile per scimmiottare le mode, verso l’ambito traguardo di ricevere qualche avanzo della ribalta del mondo (che non li avrebbe mai degnati di uno sguardo) con la sua luce salvifica e gratificante.
La sclerosi colpisce l’istituzione come il singolo. Chi conosce Il castello di Kafka, al quale facevo riferimento poco sopra, sa quanto sia particolarmente illuminante sulle dinamiche antiche con cui i funzionari, dal più insignificante al più potente, si tutelano dalla vita vera, dalla pressione del villaggio, dalla benché minima messa in discussione di ciò che hanno conquistato “per grazia di Dio” o, molto più realisticamente, per grazia di metodologie fin troppo concrete. In questo scenario il merito della questione soccombe sotto i colpi inesorabili della Realpolitik, che tutto farà tranne che dubitare di se stessa, processo infausto che potrebbe innescare il ripensamento delle ambizioni personali orchestrato in una rete capillare di scambio di favori e la sicurezza confortante di non doversi mettere in gioco. È lodevole parlarne, del merito, ma senza entrare duramente nei termini dell’intenzione, l’unico discrimine di ogni discernimento, risulta operazione del tutto inefficace. Potremmo parlare del perché e del percome la sfida culturale dovrebbe essere raccolta con urgenza, inoltrarci in sofismi e riflessioni profonde, avanzare le idee più spinte su una catarsi della contemporaneità riflessa nello specchio destabilizzante della fede, ma senza rinunciare alla stratificazione di preconcetti talmente atavici da non riuscire a ritrovarne l’origine, è tutto completamente inutile. Mi considero, a torto o a ragione giudicherà chi legge, uno di quelli che lavorano nella direzione di attualizzare la sfida del pensiero e delle opere, stimolare la riflessione sul perché e come i simboli debbano dare conto di un travaglio dinamico che renda giustizia al potenziale generativo della cristianità intesa come il grimaldello per scardinare le inferriate della conoscenza, della scienza, dell’arte, in un modo proprio e profondamente umano.
La risposta è una diffidenza viscerale dell’istituzione nella forma efficace e consolidata nei secoli del muro di gomma che non lascia lividi, come insegna la pratica millenaria del potere. Le fa eco la ostilità della base, le cui barriere ideologiche coltivate con orgoglio sono degne del più tenace bigottismo da padri fondatori, alla ricerca ossessiva della propria Salem in forma civilizzata. Naturalmente si danno anche rari casi in cui il dialogo riesce ad avere la meglio sulle resistenze e allora si può tentare la novità di parlare parole nuove, ma generalmente questa è destinata a rimanere un caso silenziato dall’omertà dei ragionieri dello spirito, che la malattia non si diffonda mettendo a rischio il procedere sicuro delle burocrazie che proliferano gioiose intorno alle questioni dello spirito. L’approccio culturale sviluppato intorno a questa stasi di fatto non è timido, sia chiaro. È il segno di una arroganza secondo cui il “Dio è con noi” significa che è con “loro” e lo è in una forma che non si discute, a meno di non accettare la griglia sclerotizzata di modi e convenzioni che impediscono ogni cambiamento che non sia a parole, parole vuote. Se, per riprendere Sequeri, è vero che «molta morale, poca comunità, zero cultura», lo è perché manca la volontà di andare in una direzione diversa. Troppo rischioso, la sempre popolarissima prudenza dissimula una paralisi incurabile e fatale. Fatale per lo spirito, fatale per la cristianità, fatale per l’uomo, a maggior ragione fatale per qualunque accezione di cultura.
Il tarlo della fissità è una fissazione velenosa. Ci mette di fronte all’evidenza della vertigine che separa l’orizzonte sterminato dell’universo indefinito in cui siamo immersi e che propone con urgenza domande urgenti e sempre nuove, e la feroce cupidigia di pregiudizi che scannerizzano la realtà come un possedimento privato, poco importa che sia una illusione, perché nessuno può realmente immaginarsi onnipotente ed eterno. Si gioca il gioco fin che c’è e lo si fa con le proprie regole allestendo con cura il teatrino di una scenografia in cui ci si immagina cesari, eletti e sacerdoti, arroccati in sicurezze immaginarie e redditizie, nel breve termine. A volte il cambiamento indomabile e costante dentro cui siamo inscritti per qualche incidente indecifrabile tenta di correggere la rotta, ma si resiste, forti di una cecità ottusa quanto tenace. La contemporaneità ha introdotto una variabile imprevista che alla luce di queste considerazioni sarebbe una benedizione: la velocità con cui la realtà pragmatica evolve in sella alla tecnologia imbizzarrita i cui tempi evolutivi si contraggono come le dimensioni dei dispositivi digitali fino ad insistere in dimensioni talmente ridotte da rendere difficile immaginarle come contenitori o vettori di qualunque istanza comprensibile.
Niente da fare. Anche di fronte a questo chiaro invito a ripensarsi, tutto un sistema di dogmi e cariche rimane perfettamente imperturbabile e rivolge al mondo di sotto uno sguardo di compassione forte della sua inamovibilità, che se uno ci pensa un minimo non è nemmeno auspicabile, ma è così rassicurante e remunerativa da annichilire il senso critico nella poltiglia indistinta della consuetudine su cui, è bene dirlo, in molti hanno costruito e costruiscono, incuranti di dettagli irrilevanti come la sfida culturale, il proprio spazio di credibilità per mettere insieme il pranzo con la cena e qualcosa di più, ma anche per esercitare controllo e potere. Sigillo di staticità della ragione e dello spirito, marchio di garanzia del giusto, dell’affidabile, del divino, quelli del castello.