Ludwig Gutmann (1899-1980)
Sei settimane di vita tra i tormenti e poi solo la morte, imbottiti di sedativi per renderla meno atroce. Era questo il protocollo di cura negli anni ’40 per i pazienti con lesioni spinali, soprattutto migliaia di ragazzi feriti durante la seconda guerra mondiale e condannati da una diagnosi che non lasciava speranza. Erano la gioventù che combatteva per difendere l’Europa dalla furia nazista, i piloti della Raf, i soldati dello sbarco in Normandia, ridotti a larve che in un mese e mezzo si consumavano tra piaghe e dolori lancinanti.
Ma in un ospedale molto speciale della Gran Bretagna il destino aveva inviato nel 1944 anche un neurologo di fama mondiale, un ebreo di Germania fuggito a Londra prima che le SS lo deportassero, il suo nome era Ludwig Guttmann e la sua idea, geniale quanto apparentemente semplice, fu di portare in corsia una palla e costringere quei moribondi a lanciarsela da un letto all’altro. Un folle? Un visionario? Un genio? L’ardua sentenza spetta sempre alla storia successiva, quella che Roberto Riccardi racconta nel suo libro Un cuore da campione, sottotitolo «Storia di Ludwig Guttmann inventore delle Paralimpiadi», edito da Giuntina (15 euro, 176 pagine) proprio alla vigilia dei Giochi paraolimpici di Tokyo.
La vita avventurosa di Guttmann incolonna una serie di “coincidenze” che è difficile considerare tali: nato nel 1899 in Slesia (oggi Polonia ma allora Prussia) e fedele alla sua patria (la Germania), nella prima guerra mondiale tenta di tutto per raggiungere il fronte, ma la guerra sembra proprio non volerlo (è destinato a ben altre battaglie). La prima volta avviene nel 1917, quando la Prussia risente ormai delle dure restrizioni economiche: il 18enne Ludwig si presenta al 156° Reggimento Fanteria, ma al collo porta ancora un tubo di vetro per il drenaggio di un’infezione riportata mentre, da volontario con il sogno della medicina, ha assistito un soldato ferito. «Abbiamo già abbastanza storpi da queste parti», lo rifiuta l’ufficiale di turno.
Una frase che determinerà nel suo futuro il rispetto per ogni paziente. L’anno dopo il giovane, ora studente universitario a Breslavia, tenta di nuovo di arruolarsi e riceve la “cartolina” il 9 settembre 1918… Non immagina che «due giorni dopo, con l’armistizio, la guerra scompare - scrive Riccardi - e ritorna nelle viscere del male che la covano». Si è portata via due milioni di tedeschi, ma non lui: «Ludwig ha perso l’ultima occasione per mettere la vita a repentaglio».
Ne avrà molte altre, più fosche, dal 1933 in poi, all’instaurarsi del nazismo e delle sue allucinate leggi razziali, le cui nubi si addensano già negli anni ’20 mentre Ludwig studia con passione la neurologia e assorbe il fermento scientifico che in quegli anni sforna scoperte e innovazioni che porteranno all’odierna Tac e alla risonanza magnetica. La medicina e lo sport sono i suoi veri interessi, insieme all’amore per Elsa, conosciuta sui banchi di studio, eccellente sciatrice, moglie al suo fianco per tutta la vita. Immediatamente dopo la laurea, nel 1923 è chiamato a ricoprire incarichi innovativi nei nascenti reparti di neurologia e neurochirurgia, due discipline ancora in fieri. Il primario che lo vuole al suo fianco a Breslavia, il professor Foerster, guida una realtà di avanguardia mondiale, al punto che quando Lenin dopo un ictus resta semiparalizzato e perde l’uso della parola Foerster è chiamato a Mosca per curarlo…
La carriera di Guttmann lo porta via via a incarichi sempre più prestigiosi e a 9 anni dalla laurea è uno dei migliori specialisti al mondo. Ma è proprio adesso che nella sua Germania il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi vince le elezioni e due mesi dopo, nel marzo del 1933, gli appartenenti alla “razza ebraica” sono rimossi da ogni professione. Genio o non genio, anche Guttmann è reietto. Foerster lo difende con coraggio, ma contro l’abiezione la ragione non ha presa. A maggio del ’33 in tutta la Germania si bruciano i libri come anticamera dei futuri forni per gli esseri umani, e nella piazza della sua Breslavia «a officiare il lugubre rito è incaricato il magnifico rettore».
C’è anche Guttman, vuole vedere, toccare con mano a cosa arriva l’uomo. Dopo l’orazione del rettore, gli studenti gettano i libri sulla pira. Ma appunto, tutto questo porterà Guttmann al suo grande destino, che ancora non può immaginare. L’ebreo licenziato dalla Germania, riceve offerte di lavoro da tutto il mondo, ma si ostina a sperare che il suo Paese, quello per cui aveva cercato di combattere, torni presto civile. In effetti durerà solo 12 anni il nazismo, ma anche Guttmann dovrà capitolare ed espatriare nel Regno Unito prima di finire nei lager con Elsa e i loro due bambini. Epico anche il modo in cui a condurlo a Londra sembra essere un destino segnato: mesi prima il dittatore portoghese Salazar aveva chiesto aiuto a Hitler per un suo amico colpito da ictus e il miglior neurologo, con grande imbarazzo della Germania, era proprio lui, un ebreo, inviato a curarlo.
È durante quel viaggio che Guttman fa sosta a Londra allacciando rapporti che presto si riveleranno vitali per il futuro salvacondotto. Nulla è per caso: una volta in Inghilterra, dal 1944 gli viene affidata la direzione della clinica Stoke Mandeville, dedicata proprio a quei feriti di guerra con lesioni spinali, allettati negli stanzoni, sedati e lasciati morire nelle canoniche sei settimane. Guttmann non ci sta, «abbiamo già troppi storpi qui» è la frase che da anni gli gira nel cervello e in quei giovani distesi come salme vede futuri uomini pieni di vigore. «Dimezzò i sedativi e ordinò di tenerli seduti, mai sdraiati », racconta l’autore.
Tutto questo arreca loro dolori indicibili, ma Guttmann non cede ai lamenti, sa di avere ragione. Quei ragazzi non vanno sedati, vanno svegliati e lo sport sarà l’arma vincente. «Portò in corsia una palla medica e i pazienti dovevano tirarsela. Presto passò a partite di polo su sedia a rotelle… ». I colleghi britannici di Guttmann sono scettici e si può capire, i giovani eroi tornati a casa col midollo spezzato non muoiono più in un mese e mezzo, anzi guariscono anche nell’anima, rivitalizzati da una sana competizione. Così il neurologo organizza una gara di polo in carrozzina, da una parte medici e fisioterapisti convinti di stravincere, dall’altra i paralitici, usciti con la medaglia al collo.
È solo l’inizio. Nel 1948 Guttmann indice la prima edizione dei “Giochi di Stoke Mandeville”, con 16 atleti (due sono donne). Instancabile, scrive ai neurologi di tutti i continenti e l’appuntamento diventa annuale, cresce irrefrenabile, contagia i colleghi stranieri, li stupisce e li convince. Nel 1952 anche gli ospedali di Canada e Israele inviano i loro atleti paralimpici, ma è l’incontro tra due grandi cuori ad accendere la miccia di quella che diventerà la più grande rivoluzione nel concepire la disabilità come diversa abilità: tra i primi ad accorrere ai Giochi di Stoke Mandeville c’è un collega italiano di Bari, Antonio Maglio, l’uomo giusto nel posto e nel momento giusto. È medico all’Inail sugli infortuni da lavoro, ma poi nel 1960 farà anche parte del Comitato che organizza le Olimpiadi di Roma.
Dall’intesa dei due medici e dal loro guizzo di fantasia nascono quell’anno in Italia le prime Paralimpiadi della storia con 400 atleti da 23 nazioni, un patrimonio che Guttmann seguirà ogni anno fino alla sua morte, nel 1980, e che oggi conta oltre 190 Comitati per lo sport paralimpico nel mondo. Guttmann non rivoluziona solo la neurologia ma sovverte l’abisso di male in cui l’uomo a volte precipita. Lui ebreo, destinato per questo alla distruzione insieme ai disabili (entrambi macchie per la razza perfetta), restituisce ai disabili la vita. «Voglio trasformare mielolesi privi di speranza in contribuenti del fisco », riassume con una battuta il suo vero obiettivo: restituire dignità, lavoro, normalità alle vite ritenute «indegne di essere vissute » e destinate all’eutanasia. Una tentazione sempre latente, che rende il messaggio di Guttmann di costante attualità.