Il pianista e compositore britannico Rick Wakeman, tastierista degli Yes
«Quando me ne andrò, sarà meraviglioso se qualcuno vorrà suonare le mie cose: il mio grande sogno è che la mia musica continui per sempre». La voce di Rick Wakeman, entusiasta del nuovo progetto Piano Odyssey, si spezza un poco solo a questo pensiero: più per tenera commozione che per soprassalto di cupezza, però, e subito l’artista inglese riprende ad affabulare sull’amore della sua vita, la musica.
Nato a Perivale (Londra) nel 1949, Rick Wakeman è uno dei pianisti-tastieristi che sono stati capaci di fare la storia, o meglio la leggenda, del rock: colonna dei grandiosi Yes a più riprese dal 1971 a oggi, con corollario di capolavori intitolati Fragile o Close to the edge, Wakeman della band britannica è stato anche decisivo compositore; e da solista di progetti colti e altri più vicini alla new age ha colpito nel segno fra tastiere e piano solo con dischi quali The six wives of Henri VIII (sei milioni di copie vendute nel ’73), Journey to the centre of the Earth (dodici milioni nel ’74), Piano portraits del 2017 (primo disco di piano solo in hit parade nel Regno Unito). Senza scordare le sue collaborazioni con Bowie, Reed, Elton John e compagnia del rock mitologico, nonché (almeno noi italiani non possiamo scordarla…) la sua colonna sonora di G’Olé , il film ufficiale dei mondiali di calcio spagnoli dell’82 vinti dalla Nazionale di Bearzot.
Piano Odyssey, edito addirittura da Sony Classical, è il ritorno di Wakeman allo Steinway gran coda modello D con un progetto raffinato fatto di scelte anche inattese: accompagnato dall’Orion Orchestra e dall’English Chamber Choir, nel cd Wakeman mescola Franz Liszt con l’inedita After the ball (la migliore dei tre suoi inediti dell’opera), fa diventare sinfonia The boxer di Simon & Garfunkel, riprende la propria Jane Seymour dandole efficace piglio vivaldiano, azzecca l’idea di far esplodere l’album in modo sontuoso con la rilettura finale della Bohemian rhapsody dei Queen. Tra i dodici brani del disco trovano spazio anche classici dei Beatles, un’intrigante commistione di larghi di Händel e Dvorak in riuscita suite e gli Yes di Roundabout del ’71 declinati in rock sinfonico… vintage, senza cioè elettronica. Perché la musica ha tante facce, perché la musica, soprattutto, per Rick Wakeman «è il centro, la vita, tutta la mia vita».
Quanto si distanzia questo lavoro dai precedenti?
«Il piano è un amore, ma anche il modo per me ideale di esprimere la musica che ho dentro: con questo cd volevo dunque affrontare al piano colori che adoro ma non avevo mai osato registrare. Magari perché troppo coinvolto emotivamente come nel caso del Liebestraum di Liszt, magari perché sinora non avevo pensato al pianoforte solo per evolvere alcune delle influenze che hanno segnato la mia storia».
Nel cd due pezzi degli Yes: perché anche qui gli Yes, e perché soltanto And you & I e Roundabout?
«Perché, soprattutto il secondo, l’ha voluto la Sony: io non pensavo funzionasse tanto. E comunque perché è musica, non rock e basta. In questi casi si tratta di spartiti interessanti (non sono suoi, nda) che è stato una sfida provare al piano e rendere in soli tre minuti anziché in otto o dieci come col gruppo. Tutto il cd è stato un lavoro realizzato provando e riprovando sul campo, senza decisioni a tavolino: abbiamo capito solo suonando, che cosa funzionava».
Funzionano, sempre, i Beatles: cosa hanno rappresentato per le persone della sua generazione?
«La libertà e la capacità di produrre bellezza usando il cervello. Senza dimenticare quanto hanno insegnato su melodie o arrangiamenti… Non era progressive, la loro musica, era più tradizionale: però l’originalità è tanta, e la semplicità di brani come While my guitar gently weeps sfiora la perfezione».
E cosa crede di aver rappresentato lei, nel mondo?
«È strano, pensarci… È bellissimo sapere che tanta gente mi ama, che molti vogliono ancora sentire gli Yes, che pure ai miei concerti di piano solo vengono un sacco di giovani. Soprattutto, è gratificante ispirare altri ad amare la musica, a imparare uno strumento, a cercare gioia suonando o ascoltando».
Qual è il suo rapporto con la musica classica?
«Da quando feci un po’ di scuola seria a 17 anni, è fondamentale. Conoscere le epoche e capire autori come Bartók ha influenzato il mio suonare e il mio scrivere. Poi c’è la tecnica: solo apprendere quella classica ti permette di affrontare tutto quello che vuoi. Oggi ne ascolto ancora tantissima».
E che cos’è la musica tout-court, oggi, per lei?
«Non potrei immaginarmi senza. Esalta lo spirito, ti spiega chi sei, vince la tristezza, fa pensare, regala serenità: jazz e classica, ma anche il pop».
È pronto per il tour del disco e per i suoi 70 anni?
«Il tour per ora sarà piano e basi, ma nel 2019 sul palco avrò anche l’orchestra come nel cd. E in effetti penso già molto, a quel compleanno… Vorrei suonare più che posso e in tutto il mondo, in un progetto non celebrativo ma che festeggi la musica della mia vita, tutta: piano solo, tastiere, band, orchestra, senza snobismi. Come piace a me».