Un'immagine del film "Due sotto il burqa" della regista Sou Abadi
Si può ridere dell’integralismo religioso, dell’intolleranza dell’islam, delle donne costrette a nascondersi sotto un velo nero, di uomini prepotenti e aggressivi che impongono assurde regole a mogli e figlie cresciute tra le irrinunciabili libertà dei paesi occidentali? La sfida è stata raccolta dalla regista Sou Abadi, che a quindici anni ha lasciato la sua famiglia e l’Iran per trasferirsi in Francia, dove vive tutt’ora. Il suo film, Due sotto il burqa, in uscita nelle nostre sale il 7 dicembre con I Wonder Pictures, è una commedia degli equivoci antioscurantista che aggiorna l’umorismo di A qualcuno piace caldo di Billy Wilder ai tempi del fondamentalismo islamico.
Leila (Camélia Jordana) e Armand (Félix Moati) sono giovani, si amano, studiano scienze politiche a Parigi e hanno in programma uno stage alle Nazioni Unite. Lui è cresciuto con due genitori iraniani (Anne Alvaro e Miki Manojlovic) che hanno lasciato il paese dopo l’avvento di Khomeini; lei, a pochi giorni dalla partenza per New York, si vede invece piombare in casa il fratello Mahmoud (William Lebghil), reduce dallo Yemen, dove ha scelto la strada della radicalizzazione. Leila non può più frequentare Armand, ma il ragazzo, per continuare a vederla, studia il Corano scoprendo un islam di pace e tolleranza, indossa il niqab, l’abito che lascia scoperti solo gli occhi, e si presenta a casa della fidanzata fingendo di essere Sheherazade, una giovane donna bisognosa di lezioni. La misteriosa studentessa però cattura l’attenzione di Mahmoud, che finisce per innamorarsi di lei e chiederla in moglie.
«L’idea di questo film – ci racconta la regista, già autrice di documentari e montatrice – nasce dal mio passato. In Iran ho vissuto la nascita della Repubblica Islamica, i divieti, la trasformazione della religione in una legge spietata che pretendeva di stabilire delle regole sulla nostra vita quotidiana, individuale, privata. Ancora ragazzina ho lasciato il paese per vivere in una società lontana da queste forme di violenza, ma qualche anno dopo questi stessi temi si sono riproposti anche in Francia. Nonostante le tragedie recentemente vissute però non credo che i francesi si lasceranno mai spingere verso l’estremismo».
Eppure il gioco del travestimento nella storia tocca un nervo scoperto: il niqab, qui trasformato in camuffamento amoroso, è stato bandito in Francia con una legge del 2010, ma è perno intorno al quale ruota la comicità del film, che con una risata mette alla berlina il fanatismo. La regista non teme reazioni negative. «Non credo di essere stata particolarmente coraggiosa se paragonata a parenti e amici imprigionati, torturati e giustiziati. Non attacco la religione, l’ironia colpisce solo l’integralismo. Del resto tutto ciò che ha fatto progredire l’umanità ha inevitabilmente ferito qualcuno. Se ci facciamo condizionare dal politicamente corretto non riusciremo a dire ciò che ci sta davvero a cuore, e io non ho certo lasciato il mio paese, la mia famiglia e la mia agiatezza a quindici anni per starmene zitta. Ho scelto la commedia perché forse da una risata può nascere una riflessione più attenta».
Il film sostiene anche l’idea che molti giovani musulmani trovino nella moschea l’unica occasione di socializzazione in un paese nel quale non riescono a integrarsi. E che i radicalizzati avrebbero bisogno di una vera e propria rieducazione alla vita. «Chi va in Siria per arruolarsi nelle file del Daesh soffre di una grande carenza d’amore. Se fossimo in grado di colmare questo vuoto affettivo, diminuirebbe sicuramente il tasso di fanatismo».
Nel film, il poster de La dolce vita, strappato da un furioso Mahmoud, diventa un simbolo di libertà negata, mentre Leila intona Bella ciao, il nostro inno alla resistenza, per rivendicarla. «Il film di Fellini, oltre ad avere un poster graficamente bellissimo, è sempre stato per me un’allegoria della libertà, assai audace e impertinente per l’epoca, tanto che la sua diffusione fu proibita in molti paesi. Ma dietro questa scelta c’è anche una strizzata d’occhio ai miei genitori, che amano moltissimo il cinema italiano».
L’ironia della regista si abbatte anche sul furore barricadiero di rifugiati politici e intellettuali che non rinunciano alla rivoluzione, come la madre di Armand, ancora pronta a gesti comicamente estremi. «Parlo degli intellettuali iraniani in generale, non solo di quelli che vivono in Francia. Provengono quasi tutti dalle classi più agiate della società, un po’ come tutti gli intellettuali nel mondo, e ahimè, a volte non capiscono la realtà che li circonda, sbagliano le loro analisi politiche e hanno tendenza a sottovalutare il semplice buon senso. Quello che Darius, il padre di Armand, dice dei loro errori politici, delle strategie sbagliate dei movimenti di sinistra in Iran, è pura realtà. Nessuna organizzazione politica iraniana ha mai ammesso di essersi sbagliata, nessun movimento progressiste ha fatto autocritica nei 40 anni che ci separano dalla rivoluzione».