venerdì 21 agosto 2020
L'autore di "Fahrenheit 451" e di "Cronache marziane" era nato il 22 agosto 1920. Il maestro della fantascienza sapeva nascondere nella patina surreale una critica all'America contemporanea
Lo scrittore americano Ray Bradbury

Lo scrittore americano Ray Bradbury - Hamilton Ray

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Si dice che la sua dimensione letteraria specifica fosse quella del racconto. I 28 contenuti nelle Cronache marziane, la sua raccolta più conosciuta, sono stati fra i più letti del ‘900 e sono divenuti una miniera inesauribile per tutto il cinema e la letteratura di fantascienza dal 1950 in poi. C’è chi sostiene che anche il suo romanzo più famoso, Fahrenheit 451, non sia in realtà che un racconto protratto, quasi espanso nella sua dimensione surreale, onirica e simbolica. Un susseguirsi di invenzioni e immagini che nel loro concatenarsi producono la trama, ma che in buona parte potrebbero vivere di vita propria o essere spostate in un altro libro per dare vita a trame diverse.

Certamente Ray Bradbury, di cui domani si celebrano i cento anni dalla nascita (22 agosto 1920, è morto il 5 giugno del 2012) non è un Melville né un London, dei quali non ha neppure lontanamente il respiro epico e la capacità di scavo psicologico. Eppure quel suo modo di raccontare a scene e a dialoghi, che si susseguono nell’incessante tuffarsi e rituffarsi nel misterioso, nel simbolico e nel fantastico, pur non caratterizzandolo come un grande romanziere, costituisce la cifra originale di uno dei più geniali narratori del ‘900.

Geniale ed efficace sia sulla pagina scritta per la lettura sia su quella scritta per il cinema. Pochi sanno che la sceneggiatura di uno dei film più visti della storia, il Moby Dick girato nel 1956 da John Huston, con Gregory Peck e Richard Basehart, porta la sua firma. E se i puristi non ne possono dimenticare i tradimenti del romanzo di Melville, lo spettatore resta irretito dall’efficacia immaginifica generata dal susseguirsi delle scene. Grandiose per la capacità di Huston di tradurle in immagini (anche grazie al volto indimenticabile di Peck–Achab) e, al contempo, per quella di Bradbury di estrarre dal romanzo tutta l’efficacia del racconto senza perdere un grammo del grande tema che lo sostiene: la sfida biblica («la bestemmia», ebbe a dire Huston) dell’uomo a Dio e alla natura.

Un autore completo, quindi, proprio grazie alla capacità di raccogliere tutto in poco spazio: mistero, trama, fantasia e, soprattutto, la ricchezza delle piccole, umane banalità. Nei fatti lo straordinario successo delle Cronache marziane (ma l’elenco dei suoi titoli è sterminato) si deve in gran parte all’ambientazione fantascientifica, ma forse soprattutto alla capacità di Bradbury di trasferire su Marte l’incedere quotidiano della provincia americana col suo triplice mito: il buon vivere borghese, l’incrollabile fiducia nel futuro e l’epica (soprattutto negativa) del west da conquistare a tutti i costi. Così se questi 28 racconti con le loro suggestioni, a tratti inquietanti alla Poe o nei successivi modi di King e Crichton, hanno avuto tanto successo in libreria come al cinema lo si deve in gran parte alla implicita critica della società americana capace di fare piazza pulita dell’amabile civiltà marziana su Marte come dei nativi d’America nella corsa all’Ovest.

Dicevamo dei simboli e delle suggestioni nel cui uso Bradbury è davvero maestro. Il racconto di una sola pagina che apre Cronache marziane è una straordinaria chiave di lettura in un solo fotogramma. Nella più tranquilla cittadina del Midwest, avvolta da un gelido inverno in cui si muovono rigogliose donne nei loro soprabiti, il calore dei reattori del razzo che decolla per Marte porta la luce e il caldo dell’estate: «Il razzo faceva i climi e le stagioni... si levava e creava l’estate... che fu per un breve istante sopra la terra...». Una visione di futuro che risuona nella nostra mente come le «magnifiche sorti e progressive» della Ginestra di Leopardi e in qualche modo anticipa le attuali nefaste influenze sul clima prodotte da una modernità incapace di progredire in armonia con la natura, che è poi il messaggio che emerge chiaro dalla lettura di Cronache Marziane.

Così come da Fahrenheit 451 emerge un gioco di simboli e di parole che giunge dritto alle domande sul senso della vita: quella sulla felicità, quella sul senso del fuoco (la salamandra) e della purificazione, quella duplice sul perché del male e sul perché l’uomo sia così incapace di imparare dagli errori del passato, che sono tutti scritti sui libri e basterebbe leggerli per non ripeterli mai più. Suggestioni letterariamente e umanamente eterne con un misconosciuto quanto evidente intento pedagogico, sottolineato dal nome del protagonista, Guy Montag, ragazzo di montagna, giovane montanaro. Così come la protagonista, la ragazza capace di mettere in crisi Montag al primo incontro chiedendo «Sei felice?», si chiama Clarisse McClellan, nome che rimanda alla purezza d’animo e a quella delle mitiche terre scozzesi. Viene in mente quel «Ti rendo lode Padre che hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli», che può sembrare religiosamente fuori tema, ma che letterariamente non lo è davvero e Bradbury lo coglie appieno.

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