sabato 29 settembre 2018
Vengono quasi sempre confuse, ma è un malinteso. Una rappresenta l’aspetto superficiale dell’altra e spesso è autocelebrativa. Ma così si perde il senso profondo dell'esperienza estetica
Bellezza ed eleganza: sinonimi o contrari?
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Eleganza e bellezza vengono quasi sempre confuse. Il malinteso è trasversale rispetto a epoche, alfabetizzazione e livello culturale, ceto sociale, professione, laicità o religiosità. Eleganza e stile sono categorie degne di nota, fonte di piacere visivo, sonoro e intellettuale (riguardano anche musica e scrittura), fondamento di comparti come moda e design. Si potrebbe definire l’eleganza come una sintesi di superficie del ricordo di cosa sia la bellezza.

La prima domanda è se la bellezza debba generare appagamento. La vulgata è che sia il suo fine. Una cosa bella ti dà piacere, ti appaga. Se mi vesto bene, firmato o meno, se ho mobili stilisticamente perfetti in casa, se apparecchio le tavole secondo il più perfetto dei galatei, coltivo la bellezza. Sembra un assunto di buon senso, e mette d’accordo più o meno tutti quelli che si possono permettere oggetti di buona fattura. Ma si tratta veramente di bellezza? Oppure della gratificazione che deriva dal riconoscersi parte di una élite che, tutto sommato a buon prezzo, vuole definirsi depositaria della bellezza?

Il minuetto delle relazioni sociali intessute sui beni di qualità porta con sé un pensiero che non ha a che fare con la bellezza. È piuttosto segnale di appartenenza, agognata e desiderata da coloro la cui ambizione, se mai è stata quella di una elevazione, si è declinata verso l’omologo degli animali che segnano il territorio. Al posto delle deiezioni fisiologiche, che hanno salvaguardato la sopravvivenza per milioni di anni, l’uomo ha creato gli oggetti-bellezza. Ha creato stile ed eleganza.

Si può forse dire che bellezza ed eleganza danno entrambe piacere. Forse. Ma allora la differenza è nel tipo di piacere. Quello dell’eleganza e dello stile è piacere di superficie. Appagamento immediato e utile. Quello della bellezza è un piacere che può dare grande stress, perché apre sempre al rischio e all’incognita. Alle volte chiedendo un prezzo molto alto. Anche quello di una intera esistenza.

L'eleganza si basa su un equilibrio che può anche lambire i confini del consueto, ma non ne esce mai. Quei confini sono fissati per convenzione, e perfettamente tarati per essere gestibili, sopportabili, organici alla conservazione, non importa quanto si travestano da stranezza. Diversamente non potrebbe assurgere a vangelo della società bene che, certo, non ha tra le sue priorità la messa in discussione dei propri paradigmi. Semmai tende a confermarli. Perché confermarli rappresenta una forma di assicurazione sulla persistenza del proprio potere.

L'eleganza assomiglia a un gioco di società, un torneo di bridge che aspira a vendersi per ascesi estetica. Mentre l'eleganza accoglie forme più o meno chiare di utilità, la bellezza si distingue per essere totalmente inutile, alla sua stessa genesi. La bellezza non è funzionale. La bellezza è. Sia che eserciti un compito allietante o inquietante, questo non incide in alcun modo sul suo farsi.

Non voglio estremizzare. Il piacere dell’eleganza, potendo, non c’è nulla di male a coltivarlo. Il grosso problema nasce quando lo si vuole erigere a bellezza. La bellezza è radicale, viscerale e inquietante. La bellezza è malattia. L’eleganza può essere un narcotico d’eccellenza, un oppio della percezione, eventualmente durezza dissimulata. L'eleganza galleggia sulla tensione superficiale del gusto. Il rapporto degli elementi che formano i vari quadretti linguistici dell’eleganza è sempre di comodo. Non è mai veramente irritante, provocatorio. Non potrebbe esserlo perché è elemento di autoconferma. Mentre la bellezza mette in dubbio, in discussione, e non è sempre piacevole. Propone l’incontro/scontro con l’alterità e non l’autocelebrazione.

Ecco perché un gruppo sociale si è inventato l’eleganza spostandola sull’altare della bellezza. Perché sembra attingere a fuoco sacro mentre invece si gingilla con lo stoppino di una candela, mai pericoloso, ma molto spendibile in termini sociali. Molte opere d’arte oggi sono più che altro assemblaggi perfetti di ciò che il committente richiede: con quel tanto di provocatorio, quel tanto di strano, quel tanto di questo e di quello in una struttura innocua e perfettamente inquadrata. Molte collezioni che fissano una linea (termine di moda che nega la vitalità stessa dell’arte) sono in realtà la cristallizzazione dello stile da raccoglitore piuttosto che indagine intima e dedicata sull’uomo e sulla bellezza.

Il baratto della bellezza per eleganza non è solo una questione di scelta di oggetti. Si trasferisce al pensiero, alla valutazione e al giudizio. Diventa vero e proprio credo, di cui molti aspirano a diventare sacerdoti. Sacerdoti del nulla. La bellezza intesa come identità, e sprone all’uomo, diviene sempre più un organismo estraneo che stimola talmente gli anticorpi degli eleganti da renderli malati di una malattia autoimmune e devastante: il vuoto.



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