La sede storica della Dc in piazza del Gesù, a Roma - Claudio Onorati/Ansa
Il 2 giugno 1992, 30 anni fa esatti, il Royal Yacht Britannia, il panfilo della Regina Elisabetta, attracca a Civitavecchia per ospitare un meeting organizzato da un gruppo di finanzieri della City sul futuro economico dell’Italia. Tra gli ospiti, in veste di relatore, l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Una «crociera di lavoro» verso l’isola del Giglio, come a indorare la pillola di una ricetta amara.
Si parla di privatizzazioni, strumento al quale (quasi) tutti guardano, chi nella prospettiva della moneta unica, chi col mero intento di fare cassa in un Paese sull’orlo del default, in cui - il mese successivo - il presidente del Consiglio Giuliano Amato procederà nottetempo a un disperato prelievo forzoso dai conti correnti. Draghi descrive la vendita degli asset statali come un’occasione per accrescere le potenzialità produttive dell’Italia.
A bordo tutti i vertici dell’industria di Stato, dall’Eni all’Enel, dall’Iri alla Telecom; c’è il presidente di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e, fra i politici, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, ma non quello dell’Industria Guido Bodrato, contrario al 'nuovo che avanza' anche a sinistra, contro i vecchi partiti, che si sta portando via anche le partecipazioni statali.
Pochi giorni prima in uno spaventoso attentato era stato assassinato dalla mafia con gli agenti di scorta e la moglie Francesca Morvillo, Giovanni Falcone, il giudice di Pizza connection, il più stimato negli Usa. L’ambasciatore Peter Secchia invia un rapporto con «priorità assoluta » alla Casa Bianca. «Era un amico, l’avevo incontrato l’ultima volta a cena a casa mia, giovedì sera, due giorni prima che saltasse in aria. Sabato mattina aveva appeso nel suo ufficio una fotografia che ci ritraeva insieme, dicendo alla sua segretaria che ero il suo più caro amico».
Il ministro della Giustizia Claudio Martelli - che aveva voluto Falcone al suo fianco anche per liberarlo dai veleni dei colleghi contrari alla Superprocura antimafia - ha un lungo colloquio a Roma col direttore dell’Fbi William Sessions. A leggere The end 1992-1994. La fine della prima Repubblica negli archivi segreti americani, appena uscito per Baldini+Castoldi a cura dallo storico della Luiss Andrea Spiri, (125 pagine, 18 euro) si ricava la sensazione che non avessero, Oltreoceano, preoccupazioni più impel-lenti, in quel periodo.
La fine della Guerra fredda, però, con la caduta del Muro, fa ben presto prevalere un pragmatismo un po’ cinico incurante della caduta in disgrazia di tutti i vecchi interlocutori. Il 12 ottobre il segretario liberale Renato Altissimo organizza un forum riservatissimo all’ambasciata di via Veneto, per confrontarsi sul progetto di un «nuovo movimento che porti l’Italia fuori dalla crisi».
Ci sono fra gli altri «il magnate dei media» Silvio Berlusconi, il petroliere Gian Marco Moratti, l’inviato della Stampa Paolo Guzzanti, il quale fra l’entusiasmo di tutti, americani compresi, propone l’ex presidente Cossiga, presente anche lui, come la persona giusta per assumere l’iniziativa. Nel frattempo le inchieste vanno avanti.
Giulio Andreotti, un protagonista assoluto scampato dalle tangenti (anche per l’antica lungimiranza nel ricavarsi un tesoretto tramite i diritti d’autore) finisce impigliato in una brutta inchiesta per mafia. Per gli Usa è un altro choc. Andreotti chiede udienza in via Veneto, ricorda le leggi antimafia varate con lui a Palazzo Chigi, i boss arrestati, l’ingaggio di Falcone come consulente alla Giustizia, e descrive quell’avviso di garanzia come una 'vendetta' della mafia.
I magistrati milanesi aggrediscono ora anche i grandi manager, non risparmiano nemmeno la Fiat. Si tolgono la vita Gabriele Cagliari (in carcere) e Raul Gardini, travolti dall’inchiesta Enimont. Il console milanese Peter Semler che aveva scritto un rapporto per il presidente Bush continua a sentirsi con il pm Antonio Di Pietro. Il capogruppo della Dc alla Camera Gerardo Bianco, ricevuto in via Veneto, punta il dito contro la «crescente aggressività» di una magistratura «completamente libera di dare la caccia ai politici».
Si tenta di mettere una toppa, che si rivela però peggiore del buco. Oscar Luigi Scalfaro, eletto presidente sull’onda di Capaci, si rifiuta di promulgare la legge del Guardasigilli Vincenzo Conso che depenalizza il finanziamento pubblico. «Non si rendono davvero conto che il sistema è finito», scrive nel suo rapporto il console.
La politica si arrende, a Palazzo Chigi arriva Ciampi. Agli Usa va bene: «È una persona riservata, non beve, non fuma, ha un tono di voce pacato, parla bene l’inglese. Si arrabbia di rado», l’identikit rassicurante da Roma. Al Quirinale va bene un politico-magistrato come Scalfaro, che fra l’altro - a loro risulta - era stato convinto a lasciare la toga per la politica da Manlio Borrelli, padre di Saverio, il procuratore di Manipulite.
Per gli Usa i segretari del Psi e della Dc Bettino Craxi e Arnaldo Forlani sono ormai fuori gioco, «bisogna guardare avanti». Già, ma in quale direzione? Silvio Berlusconi ora è in campo, non credendo che Mino Martinazzoli, con Segni, sia in grado di arginare la sinistra. A Washington, dal Dipartimento di Stato, premono, vogliono capire se ha chance di «restare al comando».
I diplomatici americani interpellano anche il cardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana, e poi in un resoconto scrivono: Martinazzoli si adopera per conservare il sostegno della Chiesa, «ma le gerarchie ecclesiastiche, che pure lo esortano a proseguire lungo la strada del rinnovamento, vogliono tenersi aperte tutte le porte».
Il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive al segretario di Stato Christopher e propone un approccio «neutrale ma non indifferente » alle dinamiche politiche in evoluzione. Il diplomatico riceve la delegazione della Dc, con Martinazzoli giungono in via Veneto il ministro dell’Istruzione Rosa Russo Jervolino, il capogruppo al Senato Gabriele De Rosa, il capo segreteria Pierluigi Castagnetti, il deputato Sergio Mattarella e il consigliere per i temi internazionali Ludovico Incisa di Camerana.
L’impressione che l’ambasciatore ne trae è disastrosa: «La Jervolino mi è sembrata di gran lunga la più perspicace e chiara, ha cercato di convincermi che, nonostante le difficoltà, vedremo presto la nascita di una nuova Dc, una forza capace di giocare ancora un ruolo importante». Ma gli altri «non hanno proferito parola» sui grandi temi. Martinazzoli risulta «il meno convincente», come se «l’unica impellenza sia quella di tenere lontane le elezioni politiche».
Nel dispaccio confidenziale definisce l’incontro «molto triste, quasi un funerale». Alle brutte meglio Berlusconi, «persona abituata ad assumere rischi», che si muove «in maniera rapida per colmare il vuoto politico creato da Tangentopoli», fa leva «su ingenti risorse finanziarie e organizzative e su un esercito strutturato di esperti del marketing e della comunicazione», e ha riacceso «la diffidenza nei confronti della sinistra comunista».
Sebbene il suo messaggio appaia ancora «carente di dettagli», soprattutto sul piano internazionale e preoccupi il coinvolgimento di uomini a lui vicini in inchieste di mafia. L’idea che gli Usa si fanno, tuttavia, è che nessuno dei tre blocchi in campo sarà autosufficiente, e quindi non si esclude tra Bossi e Occhetto un accordo post-voto per un «governo di sinistra moderata» con dentro il Partito popolare di Martinazzoli, «sostenuto implicitamente dal cardinale Camillo Ruini», che escluda Rifondazione comunista, Verdi e Rete.
I fatti andranno in modo leggermente diverso, Berlusconi a un passo dall’autosufficienza, al Senato otterrà lo stesso la fiducia, grazie alla convergenza decisiva di un gruppetto di transfughi popolari. Seguiranno trent’anni di eterna transizione, forse mai iniziata davvero.