John Edward Williams (1922-1994), l’autore di “Stoner” - archivio
Pubblichiamo alcune pagine del volume di don Paolo Alliata L’amore fa i miracoli. Tra le pagine dei grandi romanzi (Ponte alle Grazie, pagine 176, euro 16,00). La letteratura ci insegna ad amare: è una maestra di sentimenti, una fonte di sapienza, il giardino in cui Dio respira di nascosto. Seguendo questa intuizione, don Paolo Alliata ci conduce tra le pagine dei grandi romanzi, cercando il soffio che ci nutre. Perché l’amore trova sempre il modo per raggiungerci, declinandosi nelle forme, nelle storie, nelle voci più diverse, da Romain Gary a Kundera, da Tolstoj a Steinbeck fino a C.S. Lewis.
Stoner, il romanzo di John Williams, comincia dalla fine, dal tracciato sintetico di una vita e dal riferimento alla memoria. Chi è stato William Stoner? Di lui rimane una pallida traccia: un manoscritto medievale, che i colleghi hanno donato in suo ricordo all’Università, e qualche indolente reazione degli studenti davanti a un nome poco più che oscuro. Tutta l’esistenza di Stoner appare, in superficie, poco significativa. [...] Che cosa rimane della vita di un uomo? Che cosa rimarrà mai della mia vita? Che cosa la rende rilevante? Umana? È l’interrogativo che ognuno deve attraversare, quando vuole fare verità nella trama della propria esistenza. Si legge nel romanzo: «Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata».
Me la sono posta, questa domanda, quando, in ospedale per il Covid, nel novembre 2020, mi sono trovato faccia a faccia con la morte: cosa rimane di me se me ne vado adesso? Non ho generato figli, non ho prodotto opere di valore, non ho fondato comunità che mi sopravvivano, né aperto sentieri di pensiero. Tramonterò a meno di cinquant’anni senza aver graffiato un percettibile solco nel terreno del mondo… Di Stoner rimane poca traccia, ci dice l’incipit del romanzo. Ma alla fine della lettura saremo consapevoli che ciò non toglie nulla alla ricchezza di quest’uomo discreto e buono. C’è come un’altra nascosta grandezza, che palpita e respira silenziosa, anche se non è dai più riconosciuta.
Stoner è un romanzo che parla anche dello scorrere del tempo. Il tempo lavora e lascia il suo segno su ogni esistenza, su ogni cosa. Come «le assi di legno grezzo cominciavano a curvarsi intorno alla veranda e alle porte», come nel silenzio della cucina dopo cena «l’unico suono era […] il leggero scricchiolio di una trave che cedeva un poco sotto il peso degli anni», così il tempo segna anche noi. Stoner ci rifletterà. Superati da poco i quarant’anni, non si aspetterà nulla di speciale dal futuro, non sarà interessato al passato. Guardandosi allo specchio, noterà con sconcerto quanto è cambiato. C’è forse qualcosa che rimane, nel fluido scorrere del tempo? Qualche cosa che attraversa gli anni, permanendo vivo? L’incontro con la letteratura ha, nella vita del giovane William, i caratteri di una epifania, la rivelazione di una porta che si schiude sull’eterno, su qualcosa che perdura e sopravvive.
Sappiamo fin dalle prime righe che Stoner è stato un ricercatore universitario, uno studioso e docente di letteratura. L’inizio del suo percorso non è facile. Iscrittosi alla facoltà di Agraria, per convenzione deve anche seguire un corso di letteratura inglese, al quale per poco non viene bocciato, anche se dopo un po’ comincia a ottenere qualche stentato risultato. Per quanto intensi siano i suoi sforzi, la parole della letteratura gli rimangono estranee, come porte chiuse. L’arcigno professore, Archer Sloane, provoca i suoi studenti, tenendoli sempre sul filo. Con un sorriso privo di ironia, ma non di un qualche disprezzo, li guarda, li interroga, li mette alla prova. «“Cosa significa il sonetto?” chiese all’improvviso. Poi tacque, scrutando l’aula con torva, quasi compiaciuta disperazione». Quando tocca a lui esprimersi sul settantatreesimo sonetto di Shakespeare, Stoner non riesce ad aprir bocca. Ed ecco: il professore, fissando un punto oltre la classe, lo sguardo cieco, lo recita una seconda volta, «e la sua voce si fece più profonda e più dolce, come se le parole, i suoni e la metrica si fossero per un istante incarnate in lui». La classe è muta, sospesa tra la paura e, per chi riesce a coglierne l’intensità, l’incanto. «Guardò di nuovo William Stoner e disse brusco: “Shakespeare le parla attraverso tre secoli di storia, Mr Stoner. Riesce a sentirlo?”».
Stoner è rimasto in apnea per tutto il tempo. Espira con dolcezza, distoglie gli occhi dal professore, si guarda intorno. Osserva la luce filtrare dalla finestra e posarsi sui compagni, che sembrano accendersi da dentro. Si guarda le mani scure, sente scorrere il sangue dalla punta delle dita in tutto il corpo. Sloane intanto ha ripreso a parlare. «”Cosa le sta dicendo, Mr Stoner? Cosa significa questo sonetto?” Stoner alzò lo sguardo con lentezza, riluttante. “Significa” disse, e sollevò le mani in aria con un gesto vago; sentii che il suo sguardo si faceva vitreo, mentre cercava con gli occhi la figura di Archer Sloane. “Significa” ripeté, e non riuscì a terminare la frase».
Stoner ha vissuto un’epifania, e il professore se n’è accorto: lo guarda incuriosito, poi chiude bruscamente la lezione e se ne va. Il sonetto di Shakespeare, declamato da Sloane in una sorta di condizione estatica, è un’apertura su un altro tempo, dove le spalle forse non si incurvano e le travi forse non sentono il logorio degli anni. Accade in William Stoner qualcosa di misterioso: in quel momento, grazie a quei versi, comincia a sentire con più intensità e forza la vita che gli scorre attraverso e attorno. Le parole lo hanno dischiuso a «ciò che le parole possono far conoscere», senza però che riescano a esprimerlo. Quel qualcosa lo chiama da lontano. «Shakespeare le parla attraverso tre secoli di storia, Mr Stoner. Riesce a sentirlo?» Sì, Stoner riesce a sentire qualcosa che lo rende assente dal contesto e, contemporaneamente, presente a sé stesso come mai prima. Le parole di Shakespeare, o forse la verità di cuore con cui sono state declamate, incarnate dal professor Sloane, lo accompagnano a sua volta a una più profonda incarnazione: comincia a vedere e a sentire più vivamente, ad avvertire il sangue che gli scorre nelle vene, la luce che piove silenziosa dalla finestra, i vestiti che gli si muovono sul corpo via via che restituisce l’aria dai polmoni…
Questo è l’essenza dell’innamoramento – per la letteratura, per una persona, per la vita –, questa è la Grazia: quel soffio che ti accende alla realtà così com’è, ti rende grato di essere vivo, ti fa sentire «l’aroma della terra arata che sale come un canto», dice Steinbeck nella Valle dell’Eden.
Trovo qui il vero senso del «fare scuola»: accendere un ragazzo alla passione delle parole che vengono da lontano, che chiamano a qualcosa che esse stesse non sanno definire eppure lasciano intravedere, il mistero della vita, l’epifania delle cose come sono. Quel sonetto shakespeariano, descrivendo l’autunno, il crepuscolo dell’esistenza, l’amore che cresce quanto più l’amato si avvicina alla fine, parla ripetutamente del «vedere»: i segni del tempo che passa, l’essenza di ciò che va tramontando, le cose come sono in quel momento. Il presente, l’ascolto attento di quel che è, è davvero il punto di contatto – l’unico – tra il tempo e l’eternità. Come a dire: la grande letteratura è un invito a vivere davvero, è un sentiero che introduce all’avventura di diventare davvero vivi.