lunedì 29 luglio 2024
Nel testo di Eraldo Affinati “Portare la soma”, ispirato alla figura di Lazzaro, Simone di Cirene ormai anziano svela a un giovane l’evento cruciale che ha cambiato la sua vita
Icona russa delle risurrezione di Lazzaro

Icona russa delle risurrezione di Lazzaro - archivio

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Nel libro Lazzaro e il fico (San Paolo, pagine 14a, euro 14,00) sette autori contemporanei (Eraldo Affinati, Alessandro Barbaglia, Susanna Bo, Graziella Bonansea, Laura Bosio, Salvatore La Porta e Giuseppe Lupo) si mettono a confronto con altrettante pagine di Vangelo conferendo nella loro immaginaria rivisitazione una nuova forza narrativa e rivelatrice facendo rivivere tempi e figure presenti a Cristo nella sua avventura terrena. Proponiamo il racconto "Portare la soma" di Eraldo Affinati.

Alla mia età non posso più camminare a lungo come facevo un tempo, quando riuscivo a coprire grandi distanze a piedi partendo alle prime luci dell’alba senza fermarmi mai sino al tramonto. Sin da ragazzo sono sempre stato in viaggio, abituato agli spostamenti d’ogni tipo. Cercavo lavoro, volevo costruirmi una famiglia. Adesso le energie scarseggiano ma faccio il possibile con quelle che restano. Mi bastano due passi fino al mare per sentirmi meglio. Ho scoperto un sentiero nell’orto, proprio dietro alla casupola in cui vivo, che arriva fin sulla costa. Mi piace percorrerlo tutto senza fretta, aspirando l’odore aspro della salsedine frammisto al profumo intenso della macchia mediterranea. Superata una piccola altura si arriva in prossimità della battigia. Poco distante dalla riva qualcuno ha organizzato un ricovero. È un posticino tranquillo al riparo dal vento dove trascorro molte ore a ragionare con me stesso. La mattina presto arrivano i pescatori. Ormai anche loro mi conoscono e appena sbarcano, dopo aver scaricato le reti, vengono a salutarmi regalandomi un paio di pesci per la cena. Ho piacere di scambiare qualche parola coi più giovani; uno in particolare, Abraham, quando ride assomiglia ad Alessandro, il mio primogenito, che non vedo da anni e non so più dove sia finito; l’altro, Rufo, mi è stato detto che potrebbe essere a Roma, insieme alla madre, chissà se è vero. Sarebbe un sogno rivederci tutti insieme almeno una volta, ma non so se potrà accadere in questo mondo. Magari in quello futuro quando diventeremo angeli, così almeno pensano i sapienti. Sono rimasto da solo, però ho tanti amici. Persone che vengono da ogni parte del Paese soltanto per conoscermi. Davide ed Elisa, la coppia di anziani presso cui alloggio, nell’entroterra di Atlit, mi vogliono bene, altrimenti non si prenderebbero cura di me.

Il giorno in cui mi presentai, affamato e infreddolito, a chiedere un po’ di pane e olio credevano fossi un vagabondo, ne circolano numerosi da queste parti, poi, appena si sparse la voce della mia presenza, videro che tanta gente veniva a salutarmi e allora s’incuriosirono. “Come”, gli dissero alcuni contadini, “non sapete chi avete in casa?” Elisa, la mia benefattrice, esclamò sorpresa: “No, non lo sappiamo. Lo abbiamo accolto senza chiedergli niente. Lui dice di chiamarsi Simone”. “Ha detto giusto. Il Cireneo”. E così furono quei lavoratori, cristiani della prima ora, a raccontargli chi fossi. Nelle settimane successive vennero altri paesani ad abbracciarmi con la confidenza che di norma si concede unicamente a un familiare. Non si limitavano a questo. Portavano frutta e ortaggi appena raccolti, olive e formaggio, noci e miele. Mangiavano insieme a noi pregando in modo nuovo rispetto alle consuetudini ebraiche. La sera, seduti a terra intorno ai vassoi colmi di cibo succulento, ancor prima di mettersi in bocca il riso, si facevano il segno della croce e bisbigliavano una preghiera misteriosa in cui, oltre a ringraziare Dio per i beni terrestri di cui disponiamo, si permettevano addirittura di chiedergli il favore di non abbandonarli alle tentazioni, come farebbe un figlio con il padre. Mi fissavano commossi, alcuni quasi piangendo. Io non li avevo mai visti, per loro invece ero sacro. Gli uomini avrebbero voluto parlarmi. Le anziane mi toccavano stupefatte. I bambini, senza sapere niente ma vedendo l’allegria intorno a me, ridevano contenti. Davide restò sbalordito. Fui chiamato a raccontare la mia storia più volte a numerosi testimoni, alcuni dei quali fatti venire apposta per guarire dai mali che li affliggevano. Chi mi ospitava stentava a credere che potessi essere un santone. Io stavo al gioco. A un certo punto cominciai a recitare la storia della mia vita, nemmeno fosse la parte che un attore deve imparare a memoria. Andò avanti per molto tempo finché mi stancai. Adesso non dico quasi più niente. Lo fanno altri al posto mio. Sono invecchiato. Tossisco spesso. Digerisco male. Ho la memoria corta. Le parole mi escono a stento, un po’ soffocate, dalle labbra rinsecchite. Non so concentrarmi a lungo. Mi stanco subito. Fra non molto, lo so, lascerò la comitiva. Riesco a confidarmi soltanto coi ragazzini, i quali non mi incutono soggezione. Proprio come faceva il Nazareno, almeno così mi ha detto chi lo conobbe sul serio. Io posso dire di averlo incrociato una sola volta nel momento peggiore della sua breve esistenza. Non sapevo cosa avesse fatto per meritare la terribile punizione che lo attendeva. Quasi ogni giorno venivano giustiziati i condannati. Non era una novità. Ma lui sembrava innocente.

Il giorno fatale stavo tornando dai campi, a quell’epoca avevo un podere nelle campagne di Gerusalemme, per mandarlo avanti ci mettevo tutto l’impegno possibile. Sapevo cosa significasse l’esercizio quotidiano, quella proprietà l’avevo conquistata con la fatica e il sudore, ci tenevo tanto. Da molto tempo è andata in rovina. Ora non ci penso più. Ecco come va il mondo. Ero partito da Cirene ancora ragazzo seguendo una carovana di mercanti lungo la costa. Saltai sui loro carretti scappando via con l’incoscienza degli adolescenti, senza chiedere il permesso ai miei genitori. Che meraviglia furono quei giorni travolgenti pieni di continue scoperte! Superammo Alessandria che mi rimase impressa nella mente coi viali alberati e la grande sinagoga, infatti poi diedi il suo nome al mio primo figlio. Mesi di esperienze straordinarie per me che fino ad allora non mi ero mai mosso da casa. Vedevo facce nuove, sentivo idiomi incomprensibili, imparavo sempre qualcosa di diverso e lo mettevo a frutto con la rapidità dei giovani avventurieri. In quel periodo conobbi Sara, l’unica a non considerarmi come un profugo. M’innamorai della sua dolcezza, prima ancora di tutto il resto: compagna intelligente e madre premurosa, senza di lei non avrei concluso nulla, non era mai triste, aveva i capelli neri e lisci e un neo sulla guancia che la rendeva ancora più bella. Non fu semplice farmi accettare dalla famiglia, soprattutto dal padre che sembrava sospettoso nei miei confronti. Ma alla fine ci sposammo organizzando una grande festa nel villaggio. Eppure io e lei ce lo dicevamo ogni sera: non sarebbe stato facile trovare un lavoro capace di renderci felici. Ci riuscimmo a costo di tanti sacrifici restando sotto padrone per molti anni prima di sistemarci definitivamente in Palestina. Tutti sapevano da dove venissi, per questo mi chiamavano il Cireneo e mi tenevano a distanza, non si fidavano di me. Agli occhi della maggioranza rimanevo uno straniero, quindi secondo loro poco affidabile. Sempre sul punto di andar via. Invece alla fine sono rimasto qui, spezzando i legami col passato. Certo è dipeso dal fortuito incontro avuto quel giorno. L’ultima volta che l’ho rievocato è stato stamattina con Abraham, il giovane pescatore. «Perché», lui mi ha chiesto sgranocchiando le noci che gli erano rimaste nel sacco, «le guardie romane chiamarono proprio te a portare la croce del prigioniero?»

Non lo so, gli ho risposto. Forse per la mia aria forestiera, un po’ dimessa, quasi impaurita. «Dài, dimmelo bene”», ha aggiunto il ragazzo. Lo vedevo ansioso e convinto. A differenza dei bambini che non hanno la costanza di seguirmi sino in fondo, Abraham pareva realmente interessato, magari perché, me l’ha rivelato suo padre, qualche tempo fa è stato avvicinato dai cristiani i quali, suppongo io, gli avranno solleticato la curiosità sul giovane rabbi morto crocifisso. Ci siamo sistemati all’ombra degli alberi subito dietro la spiaggia. Mentre stava sorgendo il sole, una palla gigantesca sulla linea dell’orizzonte tremolante, per l’ennesima volta ho rivissuto tutta la mia storia. I prigionieri erano tre sebbene non me ne fossi reso conto immediatamente, vista la folla che veniva dietro. Il primo diretto verso il Golgota non sapevo nemmeno come si chiamasse. Vedevo ch’era sfinito, sul punto di crollare. Il soldato della scorta mi prese bruscamente gettandomi con violenza contro di lui. Pronunciò qualche parola in una lingua sconosciuta. Sul momento non compresi la ragione per cui l’avesse fatto, anzi temetti di essere stato arrestato, mi sentivo sempre sul chi va là, ero cresciuto così, dovendo dimostrare chi fossi e perché mi trovassi proprio lì dove stavo. Ma poi non tardai a rendermi conto dell’ordine che mi era stato impartito: avrei dovuto portare la croce caduta a terra insieme al carcerato perché lui non ce la faceva più. Bisognava sbrigarsi. Il tempo stringeva, l’esecuzione sarebbe dovuta avvenire entro un paio d’ore al massimo. Non ebbi nemmeno il tempo di replicare in quanto tutti continuavano a gridare forsennati spingendo il corteo. Raccolsi le forze e mi caricai sulle spalle quel legno pesante e grezzo. Mentre lo sollevavo incrociai lo sguardo del povero derelitto e restai folgorato. «Cosa c’era in lui di così speciale?» Abraham me lo ha chiesto con la tipica frontalità dei giovani. Sentivo la naturalezza di quella domanda, che quasi tutti continuano a rivolgermi, ma ancora una volta non sono riuscito a rispondere. Dico la verità: vorrei spiegarlo a me stesso, prima che agli altri, ma non ne sono capace. Posso soltanto provare a raccontare la mia emozione. Il galeotto sapeva a cosa stava andando incontro: con ogni evidenza sarebbe morto di lì a poco, soffrendo le pene atroci della crocifissione, non c’era possibilità di salvezza, eppure conservava una specie di letizia negli occhi acquosi e sofferenti. Stava sopportando un peso di gran lunga superiore alle sue possibilità, era magro, quasi smilzo, destinato al massacro. Cosa poteva sperare? Aveva il corpo segnato dalle staffilate appena ricevute, piaghe che non si erano chiuse, il fiato corto, spezzato, le mani scorticate, rugose, le ginocchia ferite, traballanti, perdeva sangue, sudava, non riusciva a tenere il passo e spesso s’inginocchiava tossendo.

Allora le guardie, furenti e selvagge, protette dalle loro corazze, con gli elmi di ferro e la spada nel pugno, lo picchiavano ancora più forte infliggendogli altre percosse, insultandolo insieme ai passanti i quali lo spintonavano. Perfino i ragazzini non esitavano a colpirlo. A sputargli contro. Magari erano gli stessi che qualche tempo prima lo avevano avvicinato rispettosi e affascinati. Come se fosse il colpevole di tutto. Non soltanto del reato, a me sconosciuto, per il quale era stato giudicato, anche di ogni altro male. I suoi due compagni sventurati procedevano insieme a lui con uguale strazio ma privi della luce che mi era parsa spuntare fra i suoi occhi. «Dove stavano gli apostoli? Perché non lo hanno aiutato?» Abraham è ancora un ragazzo. Crede che il mondo sia costruito come un gioco di squadre: amici e nemici, io di qua, tu di là. Da una parte le ragioni, dall’altra i torti. Vagli a spiegare come sia molto più complicato di così! Ci vorrebbe un maestro. Ciò che io non sono. Non c’era nessuno, gli ho detto. Oppure forse qualcuno di loro stava in disparte, osservando la scena da lontano, si nascondeva per evitare la cattura. E poi, se anche fossero stati presenti, cosa avrebbero potuto fare? I legionari, alti sui loro destrieri, parevano inattaccabili, sarebbe stato assurdo pensare di affrontarli. Se un pazzo lo avesse tentato, i romani lo avrebbero sciabolato all’istante. La gente che urlava sembrava non veder l’ora di assistere al martirio. Intere famigliole si erano già trasferite sul poggio. Combriccole di amici si preparavano allo spettacolo. Erano tutti assetati di sangue. Nella bolgia ho avuto paura di soccombere anch’io. Procedevo lento con grande fatica. Pochi passi per volta. La salita pareva interminabile. A stento reggevo la croce. Il giovane rabbi, privo di coordinazione, mi sfiorò i fianchi posando i suoi occhi su di me soltanto per un istante. Fu a quel punto che provai uno strano orgoglio. Me l’aveva trasmesso lui. Stiamo facendo un cammino insieme, pareva dicesse, stammi vicino, non scantonare. Prima ancora della gratitudine che mi riservava, percepivo la potenza di un’impresa comune a cui, senza averlo chiesto, ero stato chiamato a partecipare. In quella frazione di secondo il tragitto in cui eravamo impegnati non mi sembrò più limitato soltanto all’imminente esecuzione. Ebbi la sensazione di stare svolgendo un compito che andava oltre la comprensione che ne potevo avere. Io non so niente, pensai, ma devo portare la soma. È questa la mia miseria: ci sto dentro sino alla fine. Afrori, dolori, malattie, equivoci, incomprensioni, tradimenti, delusioni, sconfitte: non posso né devo escludere niente.

E, al tempo stesso, è questa anche la mia nobiltà: ciò di cui essere degni. Inghiotti le lacrime, accetta la tua finitudine, fatti trafiggere dal punto di vista altrui. Non credere di poter uscire indenne dal fuoco della controversia. Allora siamo tutti così? Segnati dalle percosse. Condannati a morte. Stai zitto e non chiedere di più. Ero io che parlavo o qualcun altro lo stava facendo al posto mio? Gesù, ecco il suo nome, mi guardò come se fossi più importante di lui, nel modo in cui ogni uomo dovrebbe rivolgersi a un altro. Abraham, chiamato dal padre che aveva bisogno, è andato via salutandomi in fretta, con la meravigliosa tracotanza della giovinezza, la cieca spensieratezza che noi adulti abbiamo perduto, e io sono rimasto senza parole nella quiete assoluta di fronte alla risacca coi piedi nudi sprofondati nella sabbia. Ho evitato di tornare subito a casa, come faccio di solito. Accanto al piccolo molo naturale di rocce sporgenti c’è un vecchio rudere dove, come d’abitudine, ho consumato l’intera giornata. I cavalloni del mare si frantumavano contro gli scogli provocando un pulviscolo acquoso che giungeva fino a me. Non mi asciugavo la faccia. Lasciavo che il calore del sole lo facesse al posto mio. Un cane randagio dal pelo fulvo si è avvicinato dapprima guardingo, quando ha visto che ero un amico mi ha tenuto compagnia fino a tardi. Lo conosco, a volte viene sulla riva a giocare tranquillo fra i sassi. Tra poco tornerò indietro, ormai è quasi il tramonto e fa meno caldo.

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