Gli abitanti di Kharkiv colpiti dalle devastazioni portate dall’invasione russa in Ucraina - Epa/Sergey Kozlov
Il nuovo libro dello storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, si intitola Il grido della pace ed è edito da San Paolo (pagine 240, euro 18,00). Viene presentato a Roma oggi alle 18 nella Sala Conferenze della Comunità di Sant’Egidio (via della Paglia, 14); con l’autore, Donatella di Cesare, Marco Damilano, Giuseppe De Rita, Matteo Zuppi. Riccardi riflette in queste pagine, dalle quali proponiamo qui il capitolo introduttivo, sulla necessità di creare una cultura della pace e un movimento spirituale e sociale che metta la pace al centro dell’interesse e della politica. Si può divenire artigiani di pace: dipende da ciascuno di noi. È una scelta che è all’inizio della costruzione della pace. Sapere, informarsi, seguire gli eventi, essere solidali con chi soffre per la guerra, ricordare nella preghiera vuol dire non voltarsi dall’altra parte. Un’opinione pubblica viva può influire e cambiare le vicende nazionali e le politiche internazionali. Può frenare, prevenire la guerra e aprire vie per la pace.
Il grido della pace è l’invocazione di tanti che soffrono per la guerra e ne chiedono la fine. I più non sanno nemmeno come possa concludersi, ma sentono l’urgente necessità di una fine per i dolori che sperimentano. È un grido spesso soffocato dalla distrazione dell’opinione pubblica internazionale e che si perde nella distanza profonda tra chi vive in un paese in guerra e chi invece sta in pace. Una distanza incolmabile, non geografica, ma di condizione umana. Non è facile cogliere il dolore della guerra quando si vive altrove e in tutt’altra situazione. Del resto, le guerre sono tante e numerosi sono i popoli che soffrono per esse. Troppi per attrarre la nostra attenzione. In queste pagine, ho voluto prestare ascolto al grido di pace, che viene soprattutto dall’Ucraina dove tuttora non è facilmente prevedibile una soluzione pacifica del conflitto determinato dall’invasione russa. La distanza da una pace possibile obbliga ancor di più ad ascoltare e prendere sul serio le voci che anelano o chiedono la fine della guerra in Ucraina. E sono voci anche di persone che hanno lasciato il paese e vivono da profughi accanto a noi. I drammi della guerra si scaricano, seppur in modo parziale, sui vicini o sul resto del mondo. Basta pensare all’epocale problema dell’accoglienza dei profughi. Ma non solo. Lo si è visto anche con la penuria alimentare e la crisi economica dopo la guerra russo-ucraina, che ha toccato tanti paesi, pur lontani geo-graficamente. Nel mondo globale quasi tutto si comunica. Troppo a lungo il grido che invoca la pace non è stato ascoltato. I motivi sono tanti. Tra questi non c’è solo la distanza dalle situazioni di guerra o l’indifferenza generale, ma anche un senso di inutilità nel prendere in considerazione le domande di pace. Oltre a non voler essere turbati nella nostra “piccola pace”, ristretta al proprio paese, a un mondo limitato, compare spesso appena accennata, una questione: a che serve parlare delle guerre in corso? cosa possiamo fare noi? Il senso d’impotenza genera indifferenza e la giustifica. Un’indifferenza pigra che caratterizza opinioni pubbliche, divenute indolenti, anche perché incapaci di decifrare la grande massa di notizie e immagini dolorose che le raggiungono. Finché la guerra o le sue conseguenze non arrivano a noi. Non si può, però, aspettare quel momento, reso concreto dalla minaccia dell’uso dell’arma atomica; ascoltare subito il grido di pace, accoglierlo, discuterlo, non è un fatto irrilevante. Questo libro, partendo dalla guerra in Ucraina, che vede in primo piano l’attacco di una potenza atomica come la Russia, vuole prendere sul serio il grido di dolore e le domande di pace che vengono da un paese martoriato nel cuore della vecchia Europa. Non si dimenticano tuttavia le guerre in atto altrove, come quella in Siria, drammatico precedente di quella in Ucraina e non senza legami con essa. Insomma, bisogna ascoltare e prendere sul serio le domande di pace. Occorre parlarne e non sottacerle in maniera rassegnata, come fossero richieste indiscrete, come quelle dei profughi che bussano alle porte dei nostri paesi in pace. Ascoltare queste domande vuol dire non solo conoscere realtà dolorose, ma anche far crescere la coscienza storica di cosa è stata la guerra nel Novecento con le sue terribili conseguenze: le guerre mondiali, la Shoah, le devastazioni, la perdita di vite uma- L’accettazione passiva della guerra o la sua riabilitazione come strumento politico è espressione di una coscienza che si è allontanata dalla lezione della storia del Novecento, la quale aveva portato, fin dai testi costituzionali di vari paesi, al ripudio di essa, al diffuso senso di orrore per la violenza dei conflitti. Questo è avvenuto pro- prio mentre il mondo, dopo il 1989, si andava unificando attraverso il processo di globalizzazione. Mai il mondo è stato tanto unito, eppure mai come oggi appare tanto diviso, frammentato, caotico. Anzi quelle che sono state le “tensioni unitive” dopo le guerre mondiali, a partire da una politica di pace fino al dialogo tra i mondi o le religioni, sono accantonate come utopie, mentre riemerge con forza, seppure con sfumature diverse, il nazionalismo con il suo corteo di odi antichi e nuovi. La memoria storica è un ri-chiamo decisivo per resistere alla rassegnazione di fronte al mondo che si profila. Altrimenti si cade nel pessimismo, che sconsiglia ogni azione, ogni pensiero che vada al di là del senso dell’impossibile. Questo libro è ascolto doveroso delle grida di pace, corroborato dal senso della storia che insegna come la guerra sia sovente un’“inutile strage”. Ma è anche un’evocazione e una rassegna delle risorse di pace, che esistono nel nostro mondo, almeno come io le ho viste e lo ho vissute. E non sono poche. Una vera opportunità per prendere sul serio le domande di pace. Alcune tracciano una strada per una visione più larga del futuro, libera dall’ombra pesante dei conflitti. Il dialogo come strumento per vivere insieme, l’umanesimo come cultura che sottende alla convivenza tra diversi, la cultura della pace, l’incontro tra culture e religioni, quello tra cristiani di Chiese differenne. ti, i percorsi di solidarietà… non sono storie archiviate (anche se sono messe alla prova in questo tempo difficile), ma rappresentano un autentico patrimonio. Rileggere queste storie, pur con molto realismo, rafforza la coscienza che non siamo impotenti e privi di risorse di pace. La soluzione non è improvvisa e meccanica. Ha ragione l’ex viceministro degli affari esteri Mario Giro, quando scrive che questo nostro tempo è abitato da “trame di guerra”, ma anche da “intrecci di pace”, per cui «la guerra non è mai ineluttabile, ma è sempre una scelta politica dei leader, che può essere invertita» ( Trame di guerra, intrecci di pace, Seb27 2022). Insomma, la pace è possibile. Lo è in maniera più larga, meno ristretta e assediata, di come la stiamo vivendo. Già ascoltare il grido di pace mette in movimento le persone e le coscienze, fa maturare idee, sentimenti e speranze. Non siamo consegnati a un destino ignoto, su cui non si può esercitare nessuna influenza. Si può ascoltare, comprendere, discutere: i processi messi in moto, talvolta, travolgono le resistenze e mettono in atto movimenti che vanno ben al di là dei singoli. C’è anche una forza della ragionevolezza della pace, risposta all’anelito di tanti: molte volte è un’energia sottovalutata. E poi la storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. E la più grande sorpresa è la pace. Il XXI secolo non può e non deve essere destinato alla guerra.