Lo stemma della contea di Borgogna che ispira quello di una nota casa automobilistica
Che cosa ci sta a fare quel buffo, simpatico leoncino d’argento dritto su due zampe e in posa quasi da boxeur, sul cofano delle auto Peugeot? E perché mai in una stessa città, Milano, alle strisce rossonere del Milan debbono contrapporsi proprio quello nerazzurre dell’Inter, ex Ambrosiana? Anarchica e sbrigliata fantasia della pubblicità, del marketing, che presiede a marche e a griffe? Due fra gli infiniti esempi dell’infinita capacità inventiva dell’età moderna. Nemmeno per sogno. È vero esattamente il contrario. Quei segni – anzi, quei simboli significanti, che rinviano con ogni evidenza a un preciso significato – rinviano ad altrettanti illustri e precisi archetipi: a una vera e propria grammatica e a una complessa ma rigorosa sintassi. A un linguaggio, nel senso più autentico del termine.
Alla fine del XIII secolo Ottone IV conte di Borgogna si discostò dal suo naturale signore, l’imperatore romano-germanico, per avvicinarsi alla monarchia francese che stava ormai divenendo il potere egemone dell’Europa centro-occidentale: e per questo eliminò dal suo scudo (dal suo stemma, come si usa dire) l’aquila imperiale per sostituirla con un leone, abituale simbolo di fierezza e di sovranità. E dico abituale perché, attenzione!, un simbolo è per sua natura polisemico e, in differenti contesti, può significare idee e contenuti differenti. Dalla fine del Duecento, quindi, il territorio che fino ad allora si denominava contea di Borgogna e ch’era parte dell’antico regno appunto borgognone mutò nome per definirsi Franca Contea in quanto liberatasi appunto dalla sovranità imperiale. E alla fine dell’Ottocento la casa automobilistica Peugeot, nata nella regione franchecontoisedi Montbéliard, scelse come sua griffe lo stemma di quell’antico gran signore ribelle all’impero. Un leone rampante, cioè dritto sulle zampe posteriore.
Analogo, ancorché più semplice, il percorso delle strisce bicolori delle due celebri società calcistiche milanesi: appunto rossonera e nerazzurra erano, rispettivamente, le due bandiere di altrettanti quartieri nella Milano sforzesca, alla fine del Quattrocento. Insomma, certe cose che ci sono familiari e delle quali non ci soffermiamo neppure a ricercare origine e significato vengono in realtà da lontano: da un passato spesso illustre e da un codice storicosemiologico tanto preciso quanto ricco e affascinante. La scienza che studia questo mondo (ch’è, al tempo stesso, un’arte che lo descrive) è, come tutti più o meno sappiamo, l’araldica: parola che deriva da un termine germanico, heriwald, “messaggero”. Gli araldi erano appunto funzionari militari incaricati di varie funzioni diplomatiche ed esecutive ed esperti, fra l’altro, a riconoscere nella vociante e polverosa calca dei tornei, le battaglie simulate fra cavalieri (simulate fino a un certo punto: non vi mancavano episodi cruenti), i vari protagonisti degli scontri che, chiusi nelle loro armature, si riconoscevano soltanto grazie a contrassegni simbolici (colori e figure geometriche o animali o vegetali) dipinti sugli scudi e ripetuti sui cimieri degli elmi e sulle gualdrappe dei cavalli.
L’araldica nacque da una serie di necessità pratiche funzionalmente connesse all’identità personale, familiare o anche politico-istituzionale (signorie feudali, città eccetera) nel corso del XII secolo, nonostante se ne siano riscontrati precedenti – peraltro di problematica interpretazione – già nell’età antica. Tra Sei e Novecento se ne ipotizzarono varie origini – dalle rune germaniche al mondo islamico fino alle pratiche ermetico- alchemiche con tutto il loro apparato simbologico esoterico – che le più recenti ricerche hanno dimostrato inattendibili nonostante vengano ancora largamente diffuse da una deprecabile letteratura divulgativa. Al successo talora maniacalmente sostenuto e diffuso in ambienti pseudonobiliari e misteriosofici affetti da manìe genealogiche, che aveva contribuito alla sua fama come una “scienza da colonnelli in pensione” e a una sua sistematiche svalutazione da parte dei ricercatori scientifici seri, ha per fortuna tenuto dietro negli ultimi decenni il ritorno a una considerazione storica, filologica ed anche estetica metodologicamente sorvegliata.
Ci siamo resi in altri termini conto di trovarsi dinanzi a un sistema di segni dotato di una sua rigorosa sistematicità e che può essere decodificato e interpretato contribuendo a fornire notizie storica di preziosovalore. E non siamo, sia chiaro, dinanzi a una pura e semplice scienza ausiliaria della storia, della filologia o dell’iconologia. Siamo di fronte a una scienza dotata di piena e legittima autonomia. E siamo dinanzi a un’arte, suscettibile di produrre effetti di straordinaria eleganza, di vera e propria bellezza. A persuadere di ciò sia i non troppi che ne abbiano una qualche anche modesta competenza, sia i moltissimi che non ne sanno assolutamente nulla e sono par giunta vittime magari di molteplici pregiudizi al riguardo (“sterili fantasie”, “figure arbitrarie”, “manìe reazionarie”, “inutili orpelli” et similia), sarà indispensabile una vera e propria avventura erudita e intellettuale, peraltro divertentissima: il libro di Michel Pastoureau, L’arte araldica nel Medioevo (Einaudi, pagine 236, euro 38,00).
Un libro bello, pienamente bello: e in tutti i possibili sensi di questa definizione. Impreziosito fra l’altro di ben 138 figure tutte a colori, di un ricco glossario tecnico – da leggere anch’esso, come le molte e generose note – e da cinque pagine fitte di bibliografia. Uno strumento di lavoro che ci aiuta ad entrare in un mondo di simboli densi e di realtà storiche inimmaginabili. Michel Pastoureau, del quale ho l’onore di essere amico dai tempi lontani del comune discepolato presso Jacques Le Goff, è uno dei massimi specialisti di araldica e di cromologia (la scienza che studia la natura e il significato antropologico storico dei colori) del mondo intero. Sue, fra l’altro, le recenti monografie dedicate alla storia culturale di animali reali e immaginari: l’orso, il lupo, i bestiari del medioevo. Pastoureau, uno studioso di autentica e rara generosità intellettuale, insegna storia della simbologia all’École Pratique des Hautes Études di Parigi: e la qualità del suo lavoro lo avvicina ai Menéndez Pidal, agli Warburg, ai Baltrušaitis: o, se preferite esempi tratti dall’orizzonte italiano dei nostri giorni, a una Chiara Frugoni e a un Francesco Zambon. Insomma, ai migliori interpreti della vera grande bellezza.