Il regista Pupi Avati, classe 1938 - -
Ascolti la voce tenue e rassicurante di Pupi Avati, e in un lampo, daflashback, ti ritrovi in un pomeriggio della vita di tanto tempo fa: in una Festa di laurea, o invitato a un matrimonio di campagna in Storie di ragazzi e ragazze, o magari alla stazione di Bologna, ad aspettare un treno dentro un’alba triste, in compagnia di Carlo Delle Piane che bluffa (con Gianni Cavina) – da professionista – in Regalo di Natale. Per chi scrive, da liceale andare al cinema a vedere il nuovo film dell’82enne regista bolognese Pupi Avati era come inerpicarsi spensierato per i sentieri dell’Appennino, portando nello zaino le emozioni condivise con i vecchi compagni di scuola, in Una gita scolastica. E a distanza, ora, in questo strano inverno della terra, senti cheIl cuore altrove e romantico del maestro di lungo corso, non ha filtri e non cela mai le sue debolezze, compresa l’invidia: «Quella, l’ho provata per Lucio Dalla, quando entrò a far parte della Reno Jazz Band e il suo clarinetto magico tolse di mezzo il mio, certificando, di colpo, quello che ancora oggi, sessant’anni dopo, con vivo rimpianto considero il mio “fallimento”, da musicista ». Smise di suonare Avati, dopo i primi assolo di quel piccolo grande uomo che è stato Lucio Dalla, mentre dal 1968, anno del debutto dietro alla macchina da presa – con Balsamus, l’uomo di Satana– non ha mai smesso di girare e di scriversi i suoi film. Una cinquantina alle spalle, e l’ultimo Lei mi parla ancora «è il primo in cui ho dovuto rifarmi ad un testo altrui».
Film liberamente tratto dall’omonimo libro memoire di Giuseppe Sgarbi (edito da Skira), il papà dell’editrice (La Nave di Teseo) Elisabetta e del critico d’arte e deputato Vittorio. Una lunga storia d’amore quella tra Giuseppe, Nino, interpretato – da giovane, da Lino Musella, da anziano da un «sorprendente Renato Pozzetto», confida Avati – e la “Rina”, Caterina (da giovane Isabella Ragonese e da anziana da Stefania Sandrelli). «Perché mi sono appassionato a questa storia? Mi sono convinto che la cosa che mi piaceva di più era come era stato scritto il libro, in cui un uomo, dopo 65 anni trascorsi con la propria moglie, avverte il peso insopportabile dell’assenza della donna, morta, e come scrive il poeta Attilio Bertolucci “assenza più acuta presenza”». Un dolore che lo condurrebbe a morte rapida e sicura, se non intervenisse lo scrittore, Amicangelo (Fabrizio Gifuni) a raccoglierne i confortanti ricordi. E nel confronto generazionale tra i due si sviluppa la storia». Una storia che riporta al centro, la forza inesauribile dell’amore: «Ma quello che ci ha trasmesso la tradizione cattolica – continua il regista – . La formula matrimoniale “finché morte non vi separi”, con il tempo ha assunto i contorni di una fotografia sbiadita, quasi una bugia. Le coppie pare si siano arrese ad unioni da minimo sindacale affettivo. Mentre Nino, smarrito per la perdita di Caterina va dicendo: “Un amore come il nostro arriva molto più in là. E il tuo lo sento anche da qui”». Qui, nella campagna avvolta dalle nebbie ferraresi, quel paesaggio della via Emilia, che Avati conosce bene: «Sono il figlio di sfollati di guerra che da Bologna si rifugiarono in campagna. Ricordo quella “pratica” della cultura contadina che curava la memoria dei defunti. A Capodanno, ci si riuniva tutti nelle stalle e si recitava il “Rosario dei morti”: tra un Pater noster e un Ave Maria si evocavano i nomi delle persone care che quell’anno ci avevano lasciato, per sempre». Poesia dell’amore eterno, che si rinnova, anche nella scomparsa, nell’assenza.
«La locuzione avverbiale “Per sempre” ai giorni nostri ha perso di peso specifico o è addirittura scomparsa. E non solo in amore, ma anche nelle relazioni sociali, per non parlare della politica. Una volta, appena si pensava “Per sempre”, immediatamente si tramutava in promessa da mantenere senza se e senza ma ... Oggi quando qualcuno ti presenta la moglie, ti dice: “Questa è la mia compagna”. Ma così si relativizza il rapporto, si svilisce. Io sono ancora qua dopo 55 anni con la stesa donna, mia moglie Nicola, e questa storia e questo film mi confermano che quel “Per sempre” può, anzi deve, essere una menzogna necessaria: dobbiamo ancora dircelo, perché quella promessa è forse l’unico segno di immortalità rintracciabile nella finitudine delle nostre esistenze terrene». Sul «senso dell’eternità », Avati, come fa di solito per ogni film, ascolta la voce degli esperti: «Mi sono consultato con don Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo e direttore della Rivista del Cinematografo ». Tornando ai due mesi trascorsi sul set, il regista è pienamente soddisfatto per aver «alzato ancora l’asticella, ed essere riuscito a realizzare un altro film in controtendenza». Una sfida nella sfida, probabilmente vinta, è stato scegliere come protagonista un comico come Renato Pozzetto. «Quello del comico, al quale ho tolto la maschera e fatto indossare dei panni nuovi, inediti, è una “missione” che da sempre mi lusinga e mi rigenera. Spesso mi è andata bene (vedi Diego Abatantuono in All’ultimo minuto o Regalo di Natale), a volte no (Massimo Boldi in Festival). Pozzetto per certi versi ha una storia umana e artistica che coincide con la mia. A 80 anni gli ho dato l’opportunità di riguardare dentro la sua cassetta degli attrezzi, e lì dentro ci ha trovato degli strumenti che ignorava di possedere e che ha maneggiato come meglio non poteva. Vedrete...».
Strumenti noti alla talentuosa Ragonese e affinati nel tempo dall’iconica Sandrelli: la mamma che amava il suo Giuseppe quanto il figlio Vittorio, di cui era l’autentica factotum, oltre che la coscienza critica di casa Sgarbi. «Vittorio nel film lo lascio sul fondo, lui è unico, irripetibile. Non mi interessava sottolineare il rapporto madre- figlio, ma ho concentrato tutta la mia attenzione su una storia d’amore familiare affinché diventasse una storia universale». Al pubblico l’ardua sentenza, ma quello televisivo: Lei mi parla ancora verrà trasmesso lunedì 8 febbraio – in prima assoluta su Sky Cinema e in streaming su Now Tv – . «Certo, avrei preferito un’anteprima nelle sale... L’attesa di rivedere i cinema aperti la sto vivendo male, come tutti penso. Ma lo faccio senza lamentarmi, bene o male ho la fortuna di lavorare ancora e cerco anche di dare lavoro a tutte quelle maestranze che hanno sofferto la lunga stagione di ferma che stiamo ancora vivendo. In un film come il mio c’è un indotto di almeno 200 persone occupate». Nel cast avrebbe dovuto esserci anche Johnny Dorelli che con Avati aveva già recitato in Ma quando arrivano le ragazze. «Mi sarebbe piaciuto molto, ma Johnny quando l’ho cercato non stava bene... Dorelli è un artista fantastico, a tutto tondo, e poi è uno degli uomini più leali e generosi che abbia conosciuto nel nostro ambiente. Quando anni fa ero rimasto senza lavoro, per simpatia, oltre che per stima reciproca, mi “impose” come suo regista per gli spot che doveva girare per la Renault. Io e la mia famiglia grazie a quelle pubblicità abbiamo vissuto di rendita per un bel pezzo, e anche per questo sarò sempre grato a Johnny».
Ingrato invece, è il mondo della cultura che lo fa soffrire per il suo progetto cinematografico su Dante Alighieri: il film è bloccato e rischia di rimanere un sogno da richiudere nel cassetto. «Trovo scandaloso che non mi venga data la possibilità di partire con le riprese, quando siamo già entrati nel 2021, il “settecentenario” delle celebrazioni per la morte del Poeta. È dal 2003 che chiedo di fare questo film, potrei anche rinunciare a girarlo personalmente, ma c’è un accordo con Rai Cinema che coprirebbe il 50% del budget, l’altra metà dovrebbe garantirla il Ministero dei Beni Culturali come “progetto speciale”. Ma questo che fa? Continua a rimandare gli appuntamenti, con reticenza. Ho la disponibilità di Sergio Castellitto a recitare nel ruolo di Boccaccio che racconta il mio Dante, ma il tempo stringe, o si parte a febbraio o salta tutto... Trovo assurdo che si finanzino film su qualsiasi stupidata e poi non si trovano i soldi necessari per rendere il dovuto omaggio al padre della lingua e della cultura del nostro Paese...». Si accalora e si intristisce Pupi. Ma è un breve fermo immagine, poi riaccende lo sguardo e la speranza nel domani, catturato da quel senso di eterno lasciatogli da Lei mi parla ancora. «Il film si chiude con una frase stupenda di Cesare Pavese – tratta dai Dialoghi con Leucò – “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. È un pensiero stupendo, che mi fa dormire bene, anche stanotte».