E se non ha un passato lui... Il pomodoro: così comune, tanto banale, sempre presente in tutte le salse nelle cucine italiane, al punto che spesso ci si dimentica della sua nobiltà («pomo d’oro» non è solo un modo di dire...), come succede per gli oggetti della cui presenza si gode quotidianamente ma che – quando mancano – si sente, eccome. E invece «la purpurea meraviglia» – si intitola con questa citazione da Umberto Saba un libro appena uscito, che l’italo-canadese David Gentilcore dedica per Garzanti (pp. 270, euro 13) alla storia italiana del saporoso ortaggio – è relativamente recente nella dieta mediterranea: non solo in quanto, come tutti sanno, fa parte della pattuglia di prelibatezze (il cacao, la patata, il mais, il tabacco, i fagioli) proveniente dall’America, ma anche perché ci mise parecchio a sfondare le resistenze del palato nostrano, tanto che si può dire che la famosa
pummarola ’n coppa, alla pizza o agli spaghetti, non avrebbe potuto verosimilmente essere imbandita prima dell’avanzato XIX secolo. Soltanto?!? Già. Infatti, sebbene la prima citazione che attesta la presenza del tomato – così dal termine azteco – nella Penisola risalga al 31 ottobre 1548 (il granduca Cosimo de’ Medici riceve dal fattore di una sua proprietà un cesto contenente anche quel tipo di verdura), «più di 300 anni – scrive Gentilcore – separano il suo arrivo in Italia dal suo consumo e dalla sua coltivazione su vasta scala»; tanto vasta che, tanto per dare qualche numero, oggi occupa 800 kmq, produce 6 milioni di tonnellate di frutti e rende 2 miliardi di euro... Alla faccia del pelato! Scatole & tubetti, salse & succhi (adesso ci fanno anche l’aceto), insalate & sughi. D’altronde, il pomodoro è parte integrante della decantata dieta che prende il nome dal
mare nostrum e dunque non può mancare mai – estate o inverno, potenza dell’industria conserviera – sul desco di un italiano «verace». E pensare che, agli esordi cinquecenteschi, i cerusici sostenevano tutto il contrario, e diffidavano di questa solanacea addirittura «velenosa» (come la patata, del resto): se anche era commestibile, comunque nutriva un umore melanconico, dava difficoltà di digestione e per di più non saziava la fame! Niente meraviglie, perciò, se ancora alla fine del Cinquecento il sugoso ortaggio era coltivato più per decorazione nei giardini esotici dei nobili che per nutrimento: «Era più ammirato che consumato», attesta Gentilcore. Lo stesso Cosimo Medici, del resto, gradì il cesto di cui sopra e le sue verdure «et chon grande considerazione si guardarono tutte»: mica si mangiarono... Ma il pomodoro, se non prende la via maestra per entrare in cucina, vi penetra di soppiatto come condimento «alla spagnola»: il frutto veniva appunto dalla patria dei
conquistadores e forse non è un caso se la prima regione dove ha sfondato nel menu popolano è la Sardegna, all’epoca possedimento iberico. Nel 1705 tuttavia la presenza dei pomodori è documentata pure nella dieta del collegio gesuita di Roma, in specie il venerdì di magro, e nonostante passasse per alimento afrodisiaco (in Francia, in Sicilia e altrove il suo nome è «pomo d’amore»), forse per la forma simile a un seno femminile o – chissà – per il colore: ancora oggi Luciano De Crescenzo chiama scherzosamente il menu napoletano «cucina a luci rosse», ma più per la
silhouette a lampadina del San Marzano che con intenti erotici. Sugo partenopeo, certo: al 1839 risale la prima pastasciutta rossa, codificata su carta dal duca-cuoco Ippolito Cavalcanti, e al 1847 la prima commercializzazione della polpa in scatola. Il pomodoro poi è rosso e verde come la bandiera della nuova Italia e non per nulla venne presto spacciato (ben distribuito sugli spaghetti) come «la pietanza dei Mille»: saporita consolazione alla crisi dei consumi alimentari sopravvenuta ai poveri dopo l’unità d’Italia.Consta che gli ex borbonici fossero talmente affamati da mangiare i pomodori addirittura... crudi: un’eresia antisalutista, fino a quel momento; ed è proprio in tal circostanza che si diffonde l’uso di metterli pure sulla pizza. D’altra parte, Francesco Cirio – il fondatore dell’industria conserviera della salsa che diverrà nel dopoguerra prima in Europa – era un piemontese... Fatta l’Italia, diamole dunque da mangiare. Magari una «pappa col pomodoro», come quella che faceva esultare Giamburrasca e i suoi amici collegiali di famiglia borghese e laica all’inizio del secolo poi finito «breve»; ma già Pinocchio, altro gran libro dell’italica infanzia post-unitaria, ne aveva gustato il sapore: o – meglio – lo fece il Gatto all’Osteria del Gambero Rosso, sotto forma di salsa per accompagnarvi le 35 triglie del suo modesto menu.Il pomodoro, escluso dunque per ragioni d’età dai simbolismi ancestrali e dai miti classici, dall’Ottocento in poi fa il suo ingresso però nelle arti: dapprima quale oggetto di lancio contro gli attori cani (il poeta romanesco Gioacchino Belli si augura di scamparne durante una recita pubblica nel 1838), poi anche come soggetto. Ne
I malavoglia di Giovanni Verga, la sorella del curato donna Rosolina produce quantità industriali di «conserva dei pomidoro», che suonano esempio di benessere economico oltre che di sapienza massara. Quel rito collettivo della preparazione di sugo bastevole per tutto l’anno si prolunga sino a noi in molte regioni del Sud, compresa la Eboli dove si era fermato Cristo secondo Primo Levi: il quale nella Basilicata anni Trenta annota appunto tale uso della passata di pomodoro. E se Marinetti e i futuristi si scagliano contro la pastasciutta, «assurda religione gastronomica italiana» colpevole di generare «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo» (più o meno lo stesso giudizio di Giacomo Leopardi), Giuseppe Prezzolini decenni dopo annota il successo di «
tomato sauce e parmigiano cheese» nei ristoranti di Little Italy a New York. Ormai il sugo è entrato nella cultura: stimola i musicisti, come Paganini e Rossini o il tenore Enrico Caruso; dà colore alle tele di Umberto Boccioni o Achille Beltrame; diventa addirittura il protagonista (o un luogo comune) della filmografia neorealista grazie alla quale siamo diventati «macaroni». Quando non si trasforma – addirittura – in mostro distruttore nella commedia demenzial-parodistica americana degli anni Settanta «L’attacco dei pomodori assassini», che fa il verso all’eterno «pericolo rosso» agitato dal maccartismo. Manca solo la religione: non risulta, infatti, che il povero pomodoro sia stato preso in considerazione – in qualsivoglia salsa – da alcuna fede. A meno di non considerare i «pastafariani», seguaci di una «religione» goliardica (ma che a prenderla sul serio qualche dubbio di blasfemia lo suscita) nata 5 anni fa sul Web e la cui divinità suprema è il Mostro degli Spaghetti Volante, condito con polpette e ketchup. Puah! L’ennesima offensiva transgenica e globalizzata... Che San Marzano protegga tutti i pelati.