Ernesto Galli della Loggia non ha paura di passare per pessimista. Lo mette in chiaro subito, fin dalla copertina del volume che raccoglie gli interventi pubblicati dallo storico sul Corriere della Sera a partire dal 2000. Eppure, nonostante tutto, Il tramonto di una nazione (Marsilio, pagine 320, euro 20,00) non offre affatto una lettura “sfascista”, per riprendere un termine con il quale lo stesso Galli della Loggia non manca di polemizzare nella prefazione. «Mi limito a osservare i fenomeni e a suggerire un’interpretazione – dice –. Ma non mi chieda di indicare soluzioni, la prego. Le proporrei volentieri, se solo avessi idea di quali possano essere».
Proviamo a capire dove sta l’origine del declino italiano, allora?
«Anche qui, parto da una constatazione: tutte le culture politiche del Novecento italiano sono state accomunate da una forte critica al Risorgimento. In questione non era tanto il processo di unità nazionale, ma il fatto che da questo processo fossero rimaste escluse le masse popolari. Lo stesso fascismo, nel suo porsi come svolta rispetto al passato, non era estraneo a questa prospettiva antirisorgimentale, destinata a esprimersi in modo molto più convincente attraverso i grandi partiti popolari del dopoguerra. Dal 1945 in poi, inoltre, questo particolare sentimento del Paese si accompagna ai vantaggi derivanti di una congiuntura internazionale straordinariamente favorevole. La collocazione nella sfera di influenza statunitense, l’abbondanza di risorse energiche a basso costo, la protezione militare fornita dalla Nato sono alcune delle componenti del miracolo, non solo economico, del dopoguerra».
E poi che cosa è successo?
«Che l’equilibrio garantito dalla natura popolare tanto delle forze di governo (Democrazia cristiana in primis) quanto di quelle di opposizione (il Partito comunista) è venuto meno, senza essere stato sostituito da altro. Alla cosiddetta Prima Repubblica ha fatto seguito il regno del grande nulla nel quale ancora ci dibattiamo».
L’ascesa del populismo è dovuta a questo vuoto?
«Il passaggio dalle culture politiche popolari al populismo è dovuta anche a un altro fattore, che si potrebbe definire la scomparsa del popolo. Si tratta forse della più grande mutazione sociologica che abbia mai interessato il Paese. In Italia, negli ultimi decenni, si sono pressoché estinti i contadini, che del popolo rappresentavano una componente essenziale insieme con la classe operaia, a sua volta fondamentale nel sistema di rappresentanza politica. Oggi, al contrario, la nostra società è composta da miriadi di gruppi intermedi molto variegati tra di loro anche per reddito, ed è per l’appunto questa disparità a rendere tanto difficile la rappresentanza politica. Che cosa può accomunare veramente tra loro gruppi a composizione variabile già al proprio interno come i tassisti e i ragazzi delle consegne a domicilio? Il populismo insiste su questa difficoltà, proponendo una forma di rappresentanza che fa leva esclusivamente sugli aspetti negativi dello scontento, della protesta contro il potere, dell’antipolitica. Il tutto, purtroppo, in un clima nel quale sgangheratezza e approssimazione si alternano non di rado a esplosioni di violenza. Il populismo, con la sua esaltazione di improbabili pratiche di democrazia diretta, non ha nulla da proporre al di fuori di questo disprezzo per la classe politica, dietro il quale si nasconde la volontà di liquidare il sistema di rappresentanza».
Come mai qualcosa di simile non si è verificato già all’inizio degli anni Novanta, ai tempi di Tangentopoli?
«Perché la protesta di allora, già caratterizzata da elementi populisti, fu favorita in modo più o meno sotterraneo dal Partito democratico, che pensava di trarne vantaggio. Allo stato attuale una strategia di questo tipo, capace di inglobare la rivolta antisistema all’interno del sistema stesso, non è più possibile. I partiti di sinistra non sono in grado di perseguirla e il MoVimento 5 Stelle è del tutto in sintonia con la protesta che dovrebbe contenere. Tutto sta a capire quanto possa reggere una situazione del genere».
Nel libro, come in altri interventi, lei insiste molto sul ruolo svolto dai cattolici sulla scena politica italiana.
«L’apporto dei cattolici è stato decisivo per l’affermarsi della democrazia in Italia. E decisivo, ci tengo a ribadirlo, è stato il fatto che il partito cattolico fosse sostenuto dalla Chiesa. Quella che una volta veniva bollata come “ingerenza” (pensiamo, per esempio, ai Comitati civici sorti in occasione delle elezioni del 1948) è ormai riconosciuta come una scelta lungimirante. Se passiamo al presente, però, dobbiamo ammettere che la fine della Democrazia cristiana ha lasciato un vuoto che nulla, fino a questo momento, è riuscito a colmare. Mi riferisco, in particolare, all’azione di contrappeso rispetto alle forze di sinistra, svolta in maniera molto inefficace dalle formazioni venute dopo la Dc. Certo, i cattolici hanno continuato a militare nei diversi partiti, anche su schieramenti opposti, ma lo hanno fatto a titolo personale. Niente da dire sulla testimonianza, ad affievolirsi è stata la cultura politica cattolica nel suo insieme, con ricadute molto evidenti sul piano dell’etica pubblica».
Mi scusi, ma i temi toccati dal pontificato di Francesco non vanno esattamente in questa direzione?
«Sì, ma quello che manca è un sistema di trasmissione tra l’insegnamento del Papa e la società. A questo serviva il partito politico dei cattolici. Se il partito non c’è, come non c’è oggi, si rischia che tutti plaudano alle prese di posizione di Francesco e nessuno si senta impegnato sul piano politico. Ci si entusiasma davanti ai discorsi sull’ambiente, sul lavoro, sulle storture dell’economia, ma poi non si traggono le dovute conseguenze. Il problema, secondo me, non può lasciare indifferenti le Chiese nazionali, alle quali spetta il compito di dare concretezza al messaggio del Papa. Messaggio che, per paradosso, esprime una grande consapevolezza politica, rispetto alla quale però ancora mancano gli adeguati strumenti di mediazione. La questione, a mio avviso, non riguarda solo il mondo cattolico, ma tocca da vicino anche i laici, ai quali non a caso Francesco si rivolge con tanta insistenza».