Martin Heidegger - -
Nella storia della filosofia ci sono stati dei momenti di rottura rispetto alla tradizione passata. Delle biforcazioni che scandiscono un prima e un dopo. Socrate, Cartesio, Hobbes e molti altri hanno imposto una deviazione nel corso del pensiero europeo. Ebbene, oltre alle biforcazioni realizzate, si trovano anche biforcazioni appena abbozzate, sentieri intrapresi, per poco battuti e poi interrotti. Spesso di questi tentativi inconclusi si è persa traccia, perché il filosofo coinvolto, dopo averne fatto cenno in qualche pagina di appunti o in qualche conversazione, ha scelto di non condurli a termine. Forse se i sentieri si fossero percorsi fino in fondo con convinzione e coraggio maggiori o le condizioni storiche fossero state più favorevoli, oggi studieremmo una diversa storia della filosofia. Uno di questi momenti mancati o non percorsi riguarda un seminario tenuto all’Università di Friburgo in Brisgovia in due semestri consecutivi, durante l’inverno a cavallo tra il 1930 e il 1931 e nel corso estivo dello stesso anno. A tenere il ciclo di lezioni era il filosofo più influente del Ventesimo secolo, Martin Heidegger.
In quel torno d’anni l’autore che ha impresso il suo sigillo a larga parte della filosofia continentale del Novecento si trovava in un momento di passaggio. Il suo cammino di pensiero stava confrontandosi con le difficoltà di portare a termine l’ambizioso progetto culminato nel 1927 con la pubblicazione di Essere e tempo. L’impasse avrebbe poi aperto la via alla cosiddetta Svolta. A confermarla intervengono i celebri Contributi alla filosofia del biennio 1936-1938, pubblicati postumi. Al loro cuore albergherebbe il pensiero rammemorante, volto a ripensare i vuoti e il non detto della tradizione filosofica europea. A fare maturare il passaggio da una fase all’altra è stato il confronto serrato con il pensiero di Platone, che raggiungerà l’apice con il corso del 1931-1932, Dell’essenza della verità. Dalla sua interpretazione, Heidegger riconosce la modifica dello statuto della verità, che passa da qualcosa che si svela/rivela alla verità intesa come correttezza di una proposizione.
Con l’interpretazione proposta da Heidegger, Platone sarebbe stato additato come il primo responsabile dell’oblio dell’essere nel pensiero europeo. Eppure questa interpretazione del filosofo ateniese, forse, non sarebbe stata la sola possibile da parte di Heidegger, se anziché soffermarsi sul mito della caverna avesse colto un altro passaggio del pensiero platonico. E magari lo sospetta lo stesso pensatore tedesco se, intorno alla metà del 1945, confessa durante una passeggiata con Georg Picht che «la struttura del pensiero platonico mi è completamente oscura». Il bivio nell’interpretazione del pensiero platonico, Heidegger lo sfiora nel seminario del 1930-1931 dedicato al dialogo Parmenide di Platone, un testo cardine della metafisica e stazione d’avvio di molte e inedite piste di riflessione. Del seminario rimane traccia tra le sue opere complete, ma solo con gli appunti preparatori per le lezioni, trascritti in maniera ellittica e rapsodica. Dello stesso, però, abbiamo un resoconto d’eccezione realizzato da uno dei partecipanti, il futuro membro della Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse, ma a quel tempo allievo di Heidegger.
In anteprima mondiale, il testo è ora pubblicato dall’editore Morcelliana e sarà in libreria ai primi di novembre. Il Parmenide di Platone, secondo gli appunti di Herbert Marcuse (pagine 128, euro 16,00) di Martin Heidegger esce grazie alla curatela di Vincenzo Cicero e Niccolò Tucci, artefice, peraltro, del recupero delle note raccolte da quello che diventerà molti anni dopo uno dei cantori del Sessantotto. La trascrizione dattiloscritta degli appunti di Marcuse in venticinque fogli è oggi conservata presso la Biblioteca Senckenberg dell’Università di Francoforte sul Meno. Di essa si ha notizia fin dal 1991 e nel 2007 ne ha parlato lo studioso finlandese Jussi Backmann ma fino all’attuale edizione, che riporta il testo originale a fronte, non era mai stata resa disponibile a tutti gli studiosi del maestro di Todtnauberg. Non è un testo scritto da Heidegger di proprio pugno, non rispecchia lo stile delle sue lezioni come è possibile assaporare dai testi editi. Ma non potrebbe essere diversamente, tenuto conto che sono appunti presi da Marcuse, allora trentatreenne, che aveva in animo di conseguire l’abilitazione alla libera docenza con colui che gli aveva offerto l’opportunità di una “liberazione accademica”, come scrisse egli stesso.
Eppure, pur non trattandosi di un lavoro passato al vaglio da Heidegger, che non ha avuto modo di accertarsi dei contenuti, esso è «un’inaudita novità della prospettiva che dischiude (ma da Heidegger stesso richiusa troppo presto) - precisa Tucci nell’introduzione - sia per l’eccezionalità della lettura di questo testo platonico da lui mai prima e mai più commentato in corsi accademici, scritti editi e inediti, conferenze». Quale posta in gioco rivela il commento che Heidegger ne fa, dunque? Il Parmenide è di certo uno dei dialoghi più complessi di Platone, nel quale i personaggi convenuti nella messa in scena - Parmenide, Zenone un giovane di nome Aristotele e Socrate - affrontano il rapporto tra l’uno e il molteplice. Ma un testo anche frustrante, perché aporetico, non maturando alcuna conclusione definitiva. «Nel dialogo non si “giunge a nulla”. Dobbiamo essere pronti a sopportare che “non giunge a nulla”», sono le parole di Heidegger riportate da Marcuse all’inizio dei suoi appunti.
Il testo platonico viene commentato dall’autore di Essere e tempo passo a passo, traducendo e soffermandosi sui passaggi più oscuri e ascosi, fino ad arrivare a un momento cardine. «Il terzo passaggio del Parmenide è il punto più profondo fino a cui la metafisica occidentale sia mai avanzata - così Marcuse annota le parole dell’allora maestro -. È l’avanzamento più radicale del problema di essere e tempo, un avanzamento che in seguito (da Aristotele) non è stato recepito, bensì eccepito». Ma in cosa consiste questo avanzamento? «L’attimo, diciamo noi, è il tempo stesso. Il tempo non è eternità, bensì attimo», così suonano le parole riportate di Heidegger. E dunque se il tempo è anche essere, semplifichiamo noi, l’essere avrebbe potuto comprendersi nell’attimo, per Heidegger? Il Parmenide di Platone è stato fonte di molte biforcazioni. Basti citare i commentari di Proclo, Damascio e Marsilio Ficino. E forse avrebbe potuto esserlo di un’altra, se Heidegger avesse battuto fino in fondo il sentiero solo sfiorato e non avesse detto a Marcuse e agli altri presenti al seminario invernale del 1931: «Qui ci interrompiamo».