Cecilia Mangini, nata a Mola di Bari nel 1927, fotografa, dopo un esordio come critico cinematografico, inizia la sua opera con il marito, Lino Del Fra, e in collaborazione con Pier Paolo Pasolini, con lavori documentaristici sulle periferie cittadine: Ignoti alla città (1958) e La canta delle marane (1960), ispirato dal romanzo Ragazzi di vita . E il documentario Stendalì (1960), sulle lamentazioni funebri nella provincia di Lecce. Nell’analizzare la fabbrica, affronta i drammi sociali legati al boom economico. Ad esempio in Essere donne, (1965) o in Brindisi ’66 (1966), sul petrolchimico Monteshell a Brindisi (1965). Poi Domani vincerò (1969), e All’armi, siam fascisti! (1962) con Lino Miccichè, dall’inizio del fascismo fino ai fatti di Genova del 1960. Seguirà Stalin, del 1963. Nel 2012 si reca a Taranto per raccontare e sostenere le mobilitazioni contro l’inquinamento prodotto dalla locale industria siderurgica.
«No, l’inerzia no». È il grido che tuona in tutti i minuti de In viaggio con Cecilia, il documentario da oggi in tour promozionale nelle sale delle principali città italiane, girato a quattro mani da Cecilia Mangini, la prima donna documentarista italiana, insieme a Mariangela Barbanente. Raccontata nel suo inconfondibile mix di tristezza e bellezza, la Puglia industriale è il contesto che ha unito queste due registe simbolo di un’Italia che non si arrende e che continua a credere nel ruolo insostituibile della donna. 87 anni, sguardo profondo e sempre curioso, Cecilia Mangini è ritornata sul set, grazie all’invito della coregista, a raccontare la Puglia dopo 42 anni dall’uscita del suo ultimo film, La briglia sul collo.
Tanti anni lontana dal set. Come mai ora ritorna a raccontare la Puglia industriale?«L’iniziativa è stata di Mariangela Barbanente. Doveva essere una ricognizione nella Puglia di oggi e poi siamo state travolte dalla successione degli eventi che si svolgevano nell’Ilva di Taranto. All’inizio era tutto fermo, l’arresto di Emilio Riva, il 'padrone' dell’Ilva, ha messo in moto le persone. Questo moto però non si vede nelle nuove generazioni presenti nei film. Ma quando la politica si muove anche la gente non resta indifferente».
A proposito di inerzia, cosa le manca nei documentari dell’Italia di oggi? «Si è quasi persa la speranza nel cambiamento. Quando ho girato i documentari sull’industrializzazione della Puglia, sulle città di Brindisi e Taranto, potevi toccare con mano la grande attesa mentre il riscatto del Sud Italia aveva inizio. Nella Puglia di oggi quella stessa industria ha distrutto negli anni quella attesa, lasciando la popolazione senza parole. Si è iniziato a fare molto, però è nulla se si pensa alla malformazione dei neonati, agli orfani degli operai.
Mentre girava insiema alla Barbanente cosa l’ha colpita in profondità? Ho un debito nei confronti di Luigi Di Gianni, il cantore della Lucania di Ernesto De Martino: lui mi ha fatto comprendere quanto sia determinante il senso del sacro nelle persone. Sono molto affezionata alla storia di Rosangela Chirico, la donna, orfana di padre, che ha creato un rosario con le medicine di suo papà. Attraverso la creazione di quel rosario Rosangela è riuscita a cambiare il proprio dolore in un impegno di denuncia, di ricerca della verità.
Nell’Italia degli anni ’50 i registi erano solo uomini. In quegli anni era normale considerare che la donna fosse di 'serie b'. Nessuno si poneva il problema dell’ingiustizia profonda che era esercitata obbligando altri essere umani a sentirsi e a essere giudicate figlie di un Dio inferiore. Nel momento in cui ho girato Essere donne , uscito poi nel 1965, l’aria era permeata da una profonda rivoluzione. Il problema della nostra società si può riassumere in una parola: il senso del potere. Penso ad esempio alle madri che rinunciano a essere donne in carriera per dedicare più tempo alla famiglia: non sono donne che rinunciano a se stesse, ma donne che rinunciano a esercitare un potere che giudicano sbagliato. Credo che gli uomini debbano imparare da quelle donne perché siamo una società che considera il potere come un fine per vivere».
Oggi ci sono molte più donne registe. «Quando ho iniziato a lavorare come fotografa nell’Italia degli anni ’50 eravamo solo in due, Chiara Samugheo e io. Un produttore cinematografico mi chiamò a girare un film. Amavo il cinema alla follia, organizzavo circoli con Comencini, Antonioni e Monicelli: dopo aver visto La grande illusione di Renoir, ho capito come il cinema avrebbe aiutato a capire la realtà del mondo. È stata una folgorazione. La fatica di essere donna e regista nella società contemporanea è maggiore rispetto agli anni ’50. L’impegno delle artiste di oggi deve essere più forte: sono chiamate a raccontare le nostre contraddizioni, i problemi non risolti, e soprattutto la donna contemporanea».