domenica 26 novembre 2017
A ormai cento anni dalla nascita del filosofo piemontese alcuni libri ne fanno emergere il coraggio di collocare in Dio il dialogo fra le molteplicità, mettendo a fuoco il male che incombe sull'uomo
Pareyson, l'armonia è l'incontro delle diversità
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Negli ultimi anni della sua vita il pensatore italiano Luigi Pareyson, una delle più rilevanti menti filosofiche che il nostro Paese abbia avuto nel ’900, si cimentò in un “discorso temerario”, quello del male in Dio. Il suo tentativo, sulla scia di Schelling, era quello di spiegare l’origine del male. Il filosofo piemontese provò a uscire dall’impasse ponendo Dio come libertà. Dio ab origine vince il male. «Dire esistenza di Dio – scrive – significa dire insieme scelta del bene e possibilità del male. Dire caduta dell’uomo significa dire insieme scelta del male e possibilità del bene». Temi cruciali non solo per la filosofia, ma anche per la teologia, anche se va detto sinceramente che gran parte del mondo teologico italiano negli ultimi decenni si è tenuto alla larga dall’affrontare argomenti così radicali.

Certamente la soluzione individuata da Pareyson che vede Dio come «abisso di libertà» è ben lontana dalla visione metafisica tradizionale, ma non distante dagli sforzi della più alta letteratura mistica, quella di Meister Eckhart e Angelo Silesio tanto per intenderci. Grande studioso, oltre che di Pascal e Kierkegaard, di Dostoevskij, a cui dedicò un saggio magistrale uscito da Einaudi nel 1976 ( Dostoevskij: filosofia, romanzo ed esperienza religiosa), Pareyson immaginava un «cristianesimo tragico » come alternativa al nichilismo consolatorio, al ritorno del neopaganesimo sulla base del «conglomerato nicciano- heideggeriano» a cui molti pensatori marxisti si sono fra l’altro convertiti dopo il crollo del comunismo.

Mentre si avvicinano i cent’anni della nascita, avvenuta a Piasco nel Cuneese il 4 febbraio 1918, l’editrice Mursia ne sta pubblicando l’opera omnia ( l’ultimo volume pubblicato è Prospettive di filosofia moderna e contemporanea , curato da uno di suoi più brillanti e giovani allievi, Francesco Tomatis). Va anche ricordato che a seguire i corsi di Pareyson (che ci ha lasciato nel 1991) all’Università di Torino, ove a lungo tenne la cattedra di Estetica, vi furono fra gli altri Gianni Vattimo, Umberto Eco, Sergio Givone e Guido Ceronetti. Il libro appena uscito riunisce testi anche inediti su Fichte e soprattutto Schelling, il filosofo che nel 1841 prese il posto di Hegel all’Università di Berlino ove tenne, dopo un silenzio di trent’anni, lezioni memorabili cui assistettero centinaia di giovani fra cui Kierkegaard, Engels e Burckhardt. Ed è in particolare lo sforzo speculativo dell’ultimo Schelling a interessare Pareyson, così come lo fu il teologo allora docente a Tubinga e ora cardinale Walter Kasper (si veda il volume L’assoluto nella storia, edito da Jaca Book nel 1986): la sua critica a Hegel e al suo sistema così perfetto che finisce per dimenticare l’uomo esistente. L’intento è salvare l’umano dell’uomo, non abbandonandolo a una dialettica totalitaria, ma ponendolo nella libertà del dialogo.

Proprio allora maturava la ribellione alla metafisica hegeliana in base alle ragioni dell’esistenza concreta, che avrà in Marx dal punto di vista sociale e in Kierkegaard da quello spirituale i due più autentici sostenitori. La domanda centrale di Schelling è come, posto un principio assoluto e incondizionato a fondamento della realtà, dall’infinito possa scaturire il finito. La soluzione viene trovata nel Dio della storia, non nel Dio dei filosofi rigido e immobile, ma nel Dio che si rivela all’uomo nel cristianesimo. Come bene mette in luce Pareyson, Schelling con qualche decennio di anticipo pronuncia la parola kierkegaardiana, l’“angoscia” che ossessionava il pensiero moderno e ancora perseguita quello postmoderno, «quell’angoscia della vita umana che si trasmette alla natura a causa dell’impossibilità dell’uomo di superare da sé il male e il dolore ».

Come Lévinas e Ricoeur, anche Pareyson ha ribadito la necessità di filosofare dopo le tragedie del ’900, mettendo a fuoco il male che persiste a incombere sull’uomo e ben difficilmente può trovare soluzione senza un radicamento nell’assoluto, nella trascendenza, nel 'totalmente Altro'. Ma l’ardita filosofia di Pareyson può aver a che fare con la teologia di papa Francesco? Lo pensa e lo scrive con grande chiarezza Giovanni Ferretti nel libro Il criterio misericordia , da poco edito da Queriniana. Un libro davvero fondamentale in cui il docente di Filosofia teoretica all’Università di Macerata pone la misericordia al centro non solo del pontificato di Bergoglio, ma di tutto l’annuncio cristiano: una sfida per la teologia che non è ancora stata colta appieno.

Venendo a Pareyson, Ferretti vede accomunati il filosofo piemontese e il pontefice nel tentativo «di superare il dogmatismo razionalistico che racchiude la verità in un’unica formulazione oggettuale e astorica e, per altro, di evitare il relativismo storicistico per il quale la verità è semplicemente l’espressione del particolare momento storico». L’inesauribilità del mistero di Dio, la necessità di declinare il Vangelo nei vari contesti senza legarlo a una cultura particolare, la molteplicità delle posizioni teologiche come arricchimento della fede, l’unità e la totalità come approdo non grazie alla dialettica marxiana, ma al modello delle opposizioni polari tracciato da Guardini: ecco alcuni dei punti in comune tra Bergoglio e Pareyson rintracciati da Ferretti, che vuole così delineare la possibilità di un’armonia della «diversità riconciliata». È ciò che sostiene Pareyson quando allude al dialogo come «esercizio di alterità» e che rimarca Francesco quando nell’Evangelii gaudium preferisce alla sfera il poliedro, «che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità».

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