Don Arturo Paoli - Pellis
Un decennio latinoamericano – il primo di quasi cinque – incastonato dentro la vita di un uomo durata più d’un secolo, trascorsa parte in Europa e, per quasi la metà, in America Latina, fra Argentina, Cile, Perù, Venezuela, Brasile…, spesso testimone di eventi cruciali nella storia del ‘900. Lui, questo passeur attraverso due continenti – tre ricordando l’esperienza in Nord Africa - è Arturo Paoli: sacerdote e missionario dei Piccoli fratelli del Vangelo, predicatore e scrittore che ha anticipato e praticato la teologia della liberazione, sorta di icona della “Chiesa dei poveri” mancato a centodue anni a Lucca, sua città d’origine, il 13 luglio 2015. I dieci anni, invece, sono quelli dal 1960 al 1969, da lui vissuti per lo più sbriciolandosi fra Reconquista e Fortín Olmos, nel Nordest dell’Argentina, oltre che Buenos Aires: un periodo assai meno esplorato rispetto a quello precedente, in Italia, del periodo bellico e della ricostruzione, nonché del pontificato pacelliano. Dieci anni ora però raccontati grazie a 143 lettere inedite raccolte sotto il titolo Approdo in America Latina (Morcelliana, pagine 361, euro 35), che alzano il velo su tanto lavoro in quella terra dove era giunto – dopo un duplice allontanamento dall’Italia nel ’54 e nel ’59 – «con la sofferenza dell’esule». Si tratta di un epistolario, custodito presso il Fondo Documentazione Artuto Paoli di Lucca, che vede circa una ventina di corrispondenti ai quali il religiotuale so fu legato da amicizia, vicini in molte prove. Fra di loro Umberto Allegretti, cagliaritano, amico dai tempi in cui Paoli aveva vissuto in Sardegna tra i minatori, poi referente del gruppo “Dialoghi”; Piero Gribaudi, già direttore editoriale di Borla prima di fondare nel ‘66 una sua casa editrice, conosciuto da Paoli agli esordi come autore a inizio anni ’60; Gabriella Roncoroni Christeller, l’interlocutrice privilegiata alla quale lo legò un’amicizia intensa e sofferta, dalla valenza di «un secondo noviziato»; Giovanni Villani, il biscugino e amico veronese, privilegiato tramite con i familiari; il vercellese Cesare Massa, già membro della presidenza centrale della Giac chiamato a Roma da Mario Rossi; l’ingegnere poi ordinato prete Gigi Rey, di Ivrea, guida spiri- di tanti laici e sacerdoti... Ma troviamo anche missive inviate a Giovanni Battista Montini, interlocutore fondamentale nella decisione di Paoli di unirsi alla fraternità di Charles de Foucauld all’epilogo della crisi della Giac che l’allora sostituto della Segreteria di Stato aveva cercato di evitare, ma anche corrispondente premuroso da arcivescovo di Milano e da pontefice. E lettere per Roger Schutz, il fondatore della comunità di Taizé visitata da Paoli nel ’64 l’anno dopo il lancio di una colletta ecumenica per sostenere Fortín Olmos, e una per Giorgio la Pira, conosciuto negli anni universitari a Pisa, più che un incontro un «passaggio dello Spirito» (se ne veda qui uno stralcio). Curata dalla storica Silvia Scatena – alla quale si deve un corposo saggio introduttivo, quasi un libro nel libro che va oltre la ricognizione di un impegno “terribile” nella costellazione del clero tercermundista durante la Revolución argentina – questa corrispondenza, seguendo Paoli nelle zone saccheggiate dalla compagnia Forestal e altrove, nella sua prossimità ai tanti poveri di cui si sente padre in quanto sacerdote, va a inquadrare la temperie politica ed ecclesiale dell’Argentina di allora. In primo piano resta, a ogni modo, il percorso di un missionario coraggioso lungo scenari infuocati, tali da renderlo poi facile bersaglio del cattolicesimo integrista argentino. Un percorso che si snoda, sintetizza Scatena, nel quadro di una Chiesa in cui gli intenti di cristianizzazione favoriranno «l’acutizzazione della crisi corporativa, l’emergere di una nuova sociabilità contestataria e l’avvicinamento al peronismo di settori del clero e della militanza cattolica». Ma che pure attraversa una società che vive la transizione dalla «democrazia sotto tutela negli anni del desarrollismo » alla «modernizzazione autoritaria e conservatrice » del Generale Ongania, «preludio del ritorno a un regime costituzionale presto dilaniato dai conflitti interni al justicialismo ». Ed è proprio questa società dalla struttura «destinata a una crisi profonda», insieme alla sua Chiesa scossa da quel Concilio al quale Paoli avrebbe desiderato partecipare con qualche incarico e dove stava «tutto in discussione », lo sfondo costante delle lettere di Paoli, che, prima del suo coinvolgimento nel dialogo fra cristiani e marxisti, era ben conosciuto proprio per la cooperativa rurale da lui promossa fra gli spaccalegna santafesini. Ciò che però preme sottolineare è la piena consapevolezza da parte di Paoli che dedicarsi a questa promozione umana nella «terra d’esilio» diventata « patria del cuore», rispondesse in lui «da una parte a un’ispirazione del Signore e dall’altra a un’offerta della storia». Non a caso più tardi avrebbe descritto il posto del suo «apprendistato dell’abbandono» – più duro tra i boscaioli del Chaco che fra i tuareg del Sahara – come il «luogo dove meglio avrei vissuto la mia fede in Gesù signore della storia».
«Caro La Pira, la mia vita è per la pace»
La lettera da Buenos Aires del 12 gennaio 1968 in cui don Paoli confida all’amico e maestro in Italia le sue aspirazioni di missionario fra i boscaioli di Fortín Olmos e le preoccupazioni per la pace nel mondo
«Carissimo Giorgio, […] Come stai? Immagino che starai lavorando, studiando e pensando, e soffrendo per tutto quello che sta avvenendo nel mondo. Nonostante tutti gli inviti del Papa, tutte le marce e tutto il lavoro che si sta facendo, la pace nel mondo pare sempre più lontana: e questo è un pensiero che ci tormenta tutti come cristiani. E forse ci tormenta troppo poco, perché se soffrissimo veramente nel nostro cuore e nella nostra carne il problema della pace, credo che troveremmo prima di tutto la preghiera efficace, poi il grido, la protesta, la voce per implorare anche dagli uomini di cattiva volontà la pace. Io cerco di lavorare come posso, nel mio piccolo angolo sperduto nel mondo, per costruire una piccola cellula di pace fra i miei boscaioli. Anche se è una piccola cellula nell’organismo immenso del mondo, penso che possa essere una specie di implorazione essenziale e di invito silenzioso alla pace. Lavoro alla pace non tanto diffondendo l’idea, quanto realizzando le premesse economiche, psicologiche, spirituali di questa pace. Debbo riconoscere che a Fortín Olmos, nonostante il sacrificio del calore del luogo disagiato e tutte le difficoltà […], mi pare di essere più radicato nel mondo e nell’umanità: perché faccio qualche cosa di reale e di concreto che va aldilà delle parole e dei discorsi. Come sarebbe bello che un giorno tu potessi venire in Argentina […] e vedere con i tuoi occhi quello che stiamo facendo. Sono a 800 chilometri da Buenos Aires, molti per la nostra mentalità europea, pochi per la mentalità latinoamericana […]. Chissà che il Signore ascolti la mia orazione e il mio desiderio. Mi dispiace averti visto tanto fugacemente a Firenze e non aver potuto parlare a lungo con te: sono tanti i problemi che si affollano alla mia mente e alla mia anima; però sono molto sereno e tranquillo. Mi pare di avere una fede abbastanza sicura e cerco di assicurarla tutti i giorni di più nella preghiera e nell’incontro con Dio. Aiutami anche tu che hai avuto tanta parte nella storia della mia formazione cristiana e anche della mia vocazione. Ti ricordi quando ci siamo conosciuti a Firenze […] questo nostro incontro mi è sempre restato vivo e mi ha accompagnato in tutta la vita. Anche se hai avuto prove e batoste e incomprensioni ti resta sempre il ricordo molto caro di aver influito su tanta gioventù e di averla orientata verso il Signore: questa è sempre la cosa più bella che possiamo fare al mondo. E io sono uno che ti raccomanderà al Signore».
Arturo Paoli
Buenos Aires, 12 gennaio 1968