Tra Saint Tropez e Tolone le severe sopracciglia di Vittorio Pozzo, direttore tecnico del Torino Football club, erano aggrottate sopra il primo dei suoi inflessibili ordini del giorno destinati agli atleti. «Sveglia e alzata ore 7. Ritrovo ponte di passeggiata ore 7.30. Allenamento obbligatorio per tutti i giuocatori dalle 7.30 alle 9 consistente in esercizi: salto corda, punchin ball, manubri, corsa […] Ore 9.30 caffèlatte, dopo libertà fino alle 10.30 [...] obbligatorio abito bleu con berretto sociale senza copertina […]. Tè alle 17. Cena alle 19 in abito scuro qualsiasi (permesso abito bleu). Tè verso le 22...» e via discorrendo. E mentre ne dava lettura sul ponte superiore del transatlantico Duca di Genova, i sedici calciatori di fronte a lui, schierati come una truppa di soldati, lo ascoltavano in religioso silenzio. Era il 23 luglio 1914. Da diciotto ore, tra sorrisi e lacrime, avevano lasciato sotto il sole di mezzogiorno il porto di Genova diretti verso il lontano Sudamerica, e il mister piemontese, uomo genuino e cosmopolita che del Torino Football Club era stato giocatore e socio appassionato, già scandiva con solennità le rigide tappe delle loro future giornate. «I veri atleti non poltriscono mai prima del cimento», avvertiva i suoi. La sfida che li attendeva non era in effetti delle più facili: difendere i colori del Torino contro le forti equipe del Nuovo Mondo, in particolare quelle pauliste. Complice la guerra in Europa, saranno però costretti a spingersi fino a Buenos Aires, come racconta l’autore Marco Sappino nel gustosissimo e documentato libro
La Grande Guerra ai Tropici. L’invito a partire per le Americhe era arrivato la primavera precedente dalla Liga Paulista e dalla Esperia, una società remiera formata da emigrati italiani, ed era stato lo stesso Pozzo, con il suo solito rigore, a rompere ogni indugio, accettando la proposta. Ma quasi subito gli si era parata davanti una amara sorpresa: la notizia che l’offerta originaria, prima che al Toro, era stata rivolta alla rivale Pro Vercelli e al più giovane Casale, reputate le squadre di dilettanti maggiormente in grado di «rappresentare» - aveva messo nero su rosa il quotidiano Lo Sport del Popolo, concorrente dell’altrettanto rosea Gazzetta dello Sport -, «degnamente i colori italiani» in suolo straniero. La Pro Vercelli, all’epoca dominatrice del campionato italiano, aveva risposto di sì e a nulla erano valse le richieste della Liga alla Fifa e alla Figc per stopparla e sanzionarla con la scusa che l’unione calcistica concorrente, da cui la profferta era partita, non fosse ancora iscritta alla Fifa. Risultato: due tournée da svolgere nelle stesse settimane per lo stesso tipo di pubblico, vale a dire la grande colonia italiana in Brasile. Effettivamente il 22 luglio, data della partenza da Genova della squadra del Torino, in eleganti abiti blu, cravatte e berretti alla kaiser, i rivali della Pro Vercelli, guidati dal capitano e allenatore Giuseppe Milano I, si trovavano già sulla motonave Cordoba, in viaggio ormai da sei giorni per Rio de Janeiro dove sbarcheranno il 1 agosto. I granata, invece, approderanno il 5 al porto di Santos. Tra mal di mare che non lasciava scampo, gli ancor più inappellabili «editti» di mister Pozzo e amenità varie, nei giorni di traversata erano esplose le notizie sui primi combattimenti seguiti in Europa all’attentato di Sarajevo, avvenuto proprio quando i nostri si trovavano nel pieno dei preparativi della tournée. Una volta che la Duca di Genova aveva toccato finalmente le rive brasiliane, un corteo formato da moltissimi italiani si era concentrato sotto la scaletta dopo aver tagliato in due, a suon di musica, la folla. L’Europa in quel momento era già in fiamme ma Santos, e poi San Paolo, riserveranno una accoglienza entusiasta ai pionieri del calcio italiano. Per entrambe le selezioni i match in quella remota parte del mondo saranno alternate a momenti culturali, incontri istituzionali e occasioni di svago: visite alle università, garden party, serate danzanti, gite in barca, banchetti con la borghesia coloniale. A condire ogni attività per i «giuocatori» del Toro (tutti studenti ad eccezione di uno, ricco di famiglia), era la disciplina soldatesca impartita da Pozzo; per quelli della Pro Vercelli (un solo studente in mezzo a ragionieri, impiegati, capo reparti, operai, disegnatori meccanici, agricoltori) una grande stanchezza. E difatti questi ultimi rimedieranno più sconfitte che vittorie, forse anche perché i loro avversari si riveleranno più forti di quelli sfidati dai granata. Il 17 settembre u vercellesi rimpatrieranno con le pive nel sacco. Per la truppa di Pozzo, l’avventura brasiliana sarà invece una marcia trionfale: le batoste arriveranno poco più tardi, in terra argentina, dove uscirà sconfitta in due gare su tre. Dopo diverse peripezie il mister e i suoi ragazzi riusciranno ad imbarcarsi sulle nave che li riporterà a Genova, dove arriveranno il 27 settembre. «Sul molo c’era molta gente ad attendere», scrive Sappino, riportando le parole del celebre allenatore, che mieterà trionfi per vent’anni alla guida della nazionale azzurra. «I parenti e gli amici nostri avevano formato un gruppo a parte; salutavano, gridavano, ed agitavano dei cartoncini di diversi colori ». Erano le cartoline precetto mi-litari: l’avviso di mobilitazione. Dopo pochi mesi tutti finiranno al fronte ma per diversi atleti del Torino e della Pro Vercelli non ci sarà più alcun ritorno a casa. Come scriveva a quel tempo la stampa sportiva: «Cadranno sul campo dell’onore».