Non furono le prime allarmanti confidenze di padre Agostino Gemelli, nella vulgata il "detrattore" di Padre Pio, a provocare l’indagine del Sant’Uffizio nel 1921 su di lui. Né il suo primo incontro col cappuccino avvenne "su incarico" del Sant’Uffizio. Due invece le dichiarazioni giurate, del luglio 1920, acquisite dal vescovo di Foggia Salvatore Bella e finite a Roma, a scatenare la tempesta: quella del farmacista Domenico Valentini Vista e della cugina Maria De Vito, avanzanti il sospetto che il Padre si procurasse da sé, con l’acido fenico e la veratrina, le presunte stimmate. Così, da subito, la storia prese una piega differente da quella auspicata da Gemelli, che chiedeva, tra l’altro, l’invio di tre specialisti: «uno psicologo, un medico, un teologo», nonché di «ingessare un arto superiore e uno inferiore» del cappuccino. La scelta assunta per l’indagine, col ricorso a un visitatore apostolico dai pieni poteri, fu ritenuta meno invasiva rispetto al metodo che Gemelli riteneva utile a dissipare i dubbi. Metodo, che, del resto, morto Benedetto XV nel gennaio 1922, anche durante il pontificato del successore Pio XI, fu ininfluente nelle decisioni sul caso assunte dai cardinali, talora "congelate" dallo stesso pontefice: tutt’altro che «interventista a priori» nell’
affaire o «pilotato da Gemelli», come pure si dice.Ad avanzare le nuove tesi, appoggiandosi a lunghe ricerche, specie negli archivi di quella che oggi si chiama la Congregazione per la dottrina della fede, ma anche dell’Archivio Segreto Vaticano (accessibili sino all’anno 1939), è don Francesco Castelli. Con il suo nuovo libro
Padre Pio e il Sant’Uffizio (1918-1939) da oggi in libreria per le edizioni Studium, offre documenti inediti su fatti e comportamenti di insospettati personaggi dell’intricata vicenda, inquadrandola alla luce dei compiti e del metodo di lavoro degli "inquisitori" e del profilo dell’"inquisito", tra denunce anonime, doveri istituzionali, interessi scientifici, analogie con altri casi. Castelli si sofferma su punti solo apparentemente marginali. Ad esempio la scelta del Sant’Uffizio (dopo la prima consulenza chiesta al domenicano Joseph Lémius che scartò le proposte di Gemelli) del vescovo di Volterra Carlo Raffaello Rossi (già visitatore nei seminari pugliesi, e censore di opere di Semeria e Buonaiuti) quale «uomo delle indagini» (e che, dopo la sua ispezione, quanto alle stimmate elencherà «argomenti teologici» sfocianti nella convinzione: «Sembri non manchino motivi per far propendere in favore del dono sovrannaturale»). Oppure la dichiarazione su Padre Pio da parte del Sant’Uffizio nel ’23 che, a partire da una corretta interpretazione del
non constare (qualcosa da tradurre più come «non risulta» invece che «si esclude») esprimeva un pronunciamento sospensivo e non un giudizio sui fatti relativi al cappuccino (tesi, secondo Castelli, confermata dai provvedimenti contestualmente adottati).Altro punto: la decisione unanime dei cardinali del marzo ’31, con la proibizione a Padre Pio di celebrare in pubblico e di confessare, disposizione (da intendersi più come argine al devozionismo e per sottrarre il frate ai minacciati disordini di alcuni esaltati) sospesa da Pio XI deciso a ricorrere a… Mussolini (si veda qui, in riquadro, la richiesta di aiuto) dopo i vani tentativi di trasferire il cappuccino. Né Castelli dimentica di analizzare, nella storia processuale, lo stile analitico e cauto di papa Ratti: che mai ratificò sistematicamente le decisioni dei cardinali (anzi, almeno in tredici, delle trenta sedute, Pio XI intervenne a modificare, integrare, sospendere i decreti cardinalizi). Delle tre lettere inedite di Gemelli qui riportate attira l’attenzione di Castelli quella per l’assessore del Sant’Uffizio monsignor Nicola Canali, scritta il 16 agosto ’33 e motivata dall’uscita del volume di Giorgio Festa
Tra i misteri della Scienza e le luci della fede, «con un capitolo ingiurioso» a detta di fra’ Agostino nei suoi confronti. Gemelli lamenta il fatto di non aver mai pubblicato nulla su Padre Pio, ritiene l’attacco infondato e ricorda quanto aveva sostenuto nel ’24 a proposito delle stimmate del Poverello: «Le stigmate di San Francesco non presentano solo un fatto distruttivo, come in tutti gli altri, ma bensì anche un fatto costruttivo [...]. Questo è un fatto assolutamente inspiegabile della scienza, mentre invece le stigmate distruttive possono essere spiegate con processi biopsichici. Evidentemente – continua Gemelli cercando di decifrare perché Festa lo contesti proprio a riguardo di padre Pio – l’autore del presente volume, dr. Festa, ha giudicato che con tale mia assolutezza di giudizio io mi riferissi al Padre Pio [...]. L’illazione è ingiusta....». Questo, spiega Castelli, «lascia supporre che frate Agostino non pensasse a padre Pio quando riferì, nel 1924, di alcuni presunti stimmatizzati esaminati e ritenuti non autentici». L’interrogativo è lanciato: Padre Pio fra il Sant’Uffizio e Gemelli è una storia da riscrivere?