lunedì 19 febbraio 2024
Fondando i “peace studies” consentì l'analisi delle condizioni della pace sotto un profilo scientifico, sottraendola alla lettura di semplice "assenza di guerra" e a visioni spiritualistiche
Johan Galtung nel 2011 al 41° "St. Gallen Symposium" presso l'Università di San Gallo.

Johan Galtung nel 2011 al 41° "St. Gallen Symposium" presso l'Università di San Gallo. - International Students’ Committee / WikiCommons / CC BY-SA 3.0 DEED

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È passato qualche giorno dal 17 febbraio, data che ha visto spegnersi a 93 anni e dopo una vita intensa, il norvegese Johan Galtung, uno dei più grandi ricercatori per la pace del 900 e dei tempi moderni. A lui si deve la nascita dei “peace studies” e della “peace research”, quel filone di studio sorto in antitesi alla polemologia (studio della guerra) del francese Gaston Bouthoul. La grande novità fu quella di analizzare le condizione della pace sotto un profilo strettamente scientifico, togliendola quindi sia dalla visione militare di assenza di guerra sia da una visione unicamente spiritualistica, che non considerava le condizioni sociali e politiche.

Il suo contributo parte dall’analisi della straordinaria esperienza di nonviolenza realizzata in India dal Mahatma Gandhi nella liberazione del suo paese. Analisi che permea tutta la vita di Galtung, facendone emergere gli elementi strutturali che la rendono replicabile in altre situazioni storiche e del mondo. Un background che rese possibili i suoi interventi come massimo esperto di mediazione dei conflitti in 150 situazioni internazionali, spesso con successo. Un gigante che sarebbe utilissimo anche ora, in questi anni dove la guerra ha soppiantato ogni forma di negoziazione e mediazione con gravissime conseguenze per tutto il mondo e per i poveri ragazzi che vanno a morire sotto le bombe.

Il lavoro di Galtung sul versante della nonviolenza si discosta da quello di Gene Sharp, anche lui scomparso qualche anno fa, che si applicò nello studio delle tecniche nonviolente per superare i regimi dittatoriali e le situazioni di ingiustizia. Galtung si colloca piuttosto a pieno diritto come uno dei più grandi studiosi del cambiamento socio politico anche grazie alle sue ricerche iniziate negli anni 60 e basate sul concetto di violenza strutturale. Questo gli portò vasti riconoscimenti anche nel mondo dei movimenti di liberazione, specialmente dal colonialismo, che proprio in quegli anni trovavano il loro apice. Tutti noi, pacifisti e nonviolenti, abbiamo scoperto nel suo pensiero idee, riferimenti e spunti fondamentali. Anche grazie a Nanni Salio, scienziato italiano che fu il suo principale divulgatore nel nostro paese dagli anni 80. Ancor di più mi piace ricordare come Galtung, attorno ai suoi 25 anni, venne in Italia per “farsi le ossa” sul tema della nonviolenza e del cambiamento sociale nello straordinario laboratorio che Danilo Dolci aveva impiantato nella Sicilia occidentale, contro la mafia e contro la povertà. Insieme a un enorme numero di giovani ricercatori e militanti provenienti da tutta Europa, e con Dolci come punto di riferimento, nacque una profonda elaborazione che mise le basi per ricostruire l’Europa del dopoguerra e immaginare un futuro diverso. Non posso e non possiamo che essere grati a questa grande figura del Novecento che ci lascia un’eredità di studi e ricerche che continueranno a essere di ispirazione per lunghissimo tempo.

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