domenica 12 maggio 2024
Il politologo: «Riscopriamo la nostra storia, proponiamo opere che mostrino il significato sociale che in maniera inconfondibile incorporano»
Lorenzo Ornaghi

Lorenzo Ornaghi - archivio

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Prosegue il dibattito che da diverse settimane anima le pagine di “Avvenire” attorno alle questioni tra cattolicesimo e cultura. In precedenza sono intervenuti Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti e Alici


A meno di pensare o auspicare che la presenza attiva e significativa dei cattolici nella vita del nostro Paese si affievolirà sempre di più sino a risultare indefinibile già negli orizzonti più vicini, la questio- ne dell’apporto specifico e delle concrete forme di questa presenza resta aperta. Non inutilmente, bisognerebbe subito aggiungere ricorrendo a una litote agrodolce. E nemmeno poiché è questione tenuta artificialmente in vita da chi (non soltanto per ostinata affezione al tema, o per refrattarietà a voler comprendere ciò che è cambiato e sta cambiando nei tempi in cui viviamo) ritiene che idee, azione e opere dei cattolici siano ancora necessarie e benefiche per l’Italia, oltre che, forse e sperabilmente, per l’Europa. Purtroppo, la questione resta tuttora impostata e discussa in termini quasi sempre risaputi e ripetitivi, incrostati, da distinzioni polemiche e contrapposizioni tutte interne ad aree particolari o a singoli esponenti del cattolicesimo italiano. L’esito è sotto gli occhi. Di modesto interesse e attrattiva pressoché nulla per i più, essa sembra scomparire dentro la folla degli innumerevoli problemi che, “plasmati” dai mezzi di comunicazione, modellano per gran parte le nostre percezioni della realtà, facendoci sempre più equivocamente scambiare le prime con la seconda.

Ha dunque fatto bene Roberto Righetto, nell’articolo pubblicato il 9 marzo sulle pagine di “Agorà” di “Avvenire”, sotto il chiaro e pertinente interrogativo (nell’edizione online) Perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?, a riaccendere l’attenzione nei riguardi dell’«at- tuale grave stato di stagnazione della cultura cattolica». E soprat- tutto ha fatto bene, tenendosi lontano dai luoghi comuni che solitamente avvolgono diagnosi (e prognosi) di questa situazione ristagnante da tempo, a mostrare come la causa principale consista nella crescente difficoltà o incapacità di ravvivare e alimentare, insieme e in modo vicendevole, cultura e fede.

La cultura dei cattolici, osserva Righetto, sta rapidamente diventando una «cultura socialmente insignificante». L’avverbio socialmente è da intendersi in tutto ciò che esso contiene ed esprime. Anche l’insignificanza nella sfera della politica (al pari di quella nel campo dell’economia) discende da quella sociale. Se una società è dotata di “significati”, questi possono essere trascurati o anche contrastati dalla politica. Solo temporaneamente e precariamente, però. Perché sono appunto i “significati sociali” ad assicurare non solo la durata nel tempo di un sistema politico, ma anche una non esasperata, pericolosa volubilità degli elettori nei confronti di classi politiche o leader. Ed è la tenuta dei più solidi fra questi significati a garantire che la società non venga confinata, o per motivi magari poco nobili si auto-collochi, in uno stato di minorità e di sfiduciata o connivente remissività. La scristianizzazione sta culturalmente infragilendo, con velocità ormai vertiginosa, le società dell’Occidente.

Le “parole” di vita eterna – a incominciare da quelle sulla morte, sul giudizio finale e sulla risurrezione dei corpi, sulla comunione dei santi, e talvolta persino dalle enunciazioni più indispensabili affinché si riconosca l’esistenza e si ami la presenza “in ogni luogo” dell’“Essere perfettissimo” – sembrano risuonare sempre più flebilmente. O, quando non vengano rimosse o colpite da ostracismo, si disperdono, come ammoniva Joseph Ratzinger nel 1967, dentro il «gran sciupio di parole di questi tempi». Lo sciupio è ora divenuto uno sperpero enorme, insensato. Funzionale però all’auto-sopravvivenza di una cultura ristagnante o declinante.

Alla prova dei fatti, parrebbe dunque di scarsa utilità, o poco più di un generoso supplemento di “testimonianza” individuale, il continuare a interrogarsi su quale sia, e possa essere oggi, il compito specifico della cultura cattolica (per usare questa formula sintetica e facilmente identificativa, ma anche in via di un’evaporazione non troppo sgradita a personalità di spicco fra i cattolici stessi). Così come sarebbe del tutto inefficace l’attardarsi ulteriormente in diatribe riguardanti l’interrogativo se la crescente indeterminatezza e insignificanza di questa nostra cultura sia l’esito immodificabile o una conseguenza reversibile, delle trasformazioni già avvenute o ancora in atto nel rapporto tra la fede vissuta e la vita sociale. Dentro le quali trasformazioni e mutazioni, giudicate con grande preoccupazione ovvero con gradi di favore a seconda delle contrastanti tesi sul domani auspicato del cristianesimo e della Chiesa cattolica, vi è anche – va da sé – il cambiamento del- le idee e delle prassi relative ai rapporti sempre esistenti e in- tercorrenti, di necessità, fra la vita sociale e la politica.

Ogni riflessione non retorica sullo spazio della cultura cattolica e ogni proposta non banale riguardo al suo ruolo non possono che (ri)prendere avvio dall’effettiva intensità del connubio attuale fra questa cultura e la fede vissuta e praticata, dalle loro corrispondenze, consonanze e convergenze “strutturali” (per dire così) e non soltanto epidermiche o, peggio, occasionali. Roberto Righetto, senza insistere in modo eccessivo e alla fin fine depistante né sui doveri e sulle responsabilità di ciascuno di noi né su quelli della Chiesa italiana, osserva giustamente come non sia nemmeno pensabile – al di fuori di un chiaro orizzonte culturale – un «nuovo immaginario della fede che attragga i giovani». Oltre che corretta, l’osservazione invita a lasciarsi alle spalle le analisi troppo spesso replicate in questi anni e ormai stantie, per considerare invece quali strumenti, quali azioni, quali “cantieri” culturali siano oggi indispensabili. Dopo che – chissà se per qualche senso di inferiorità, o per altri motivi – la cultura cattolica ha lungamente e inutilmente rincorso quella che di volta in volta, da molti o anche da pochi, era stimata come “la” cultura, imitandone o assimilandone schemi concettuali, metodi, vocaboli e linguaggio, è forse giunto il tempo di ritrovare le “ragioni” della propria identità, oltre che della propria storia. A incominciare da un tentativo, almeno. Cioè quello di riuscire a progettare e costruire opere nuove, capaci di mostrare – culturalmente, appunto e in primo luogo – quale sia il significato sociale che esse in maniera inconfondibile incorporano o rappresentano.

Anticipiamo in queste colonne ampi stralci dell’articolo Il rischio di insignificanza sociale della cultura cattolica di Lorenzo Ornaghi, politologo, già ministro della Cultura e rettore dell’Università Cattolica, che apparirà sul nuovo numero della rivista “Studi cattolici”, diretta da Andrea Beolchi e in uscita martedì prossimo.

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