Oney Tapia, 42 anni, nel 2018 medaglia d’oro agli Europei paralimpici nel disco e nel peso (Mantovani/FISPES)
Di buon mattino è già in pista, e in questo periodo, si sa, allenarsi all’aperto significa sfidare temperature molto rigide. Ma ci vuole ben altro per fermare Oney Tapia, il gigante buono dei lanci (del disco e del peso), volto noto del mondo paralimpico, la cui storia parla da sola. Centonovanta centimetri di potenza e coordinazione, nato a Cuba e naturalizzato italiano, un incidente fortuito nel 2011 l’ha privato della vista. Eppure è stato paradossalmente quello il trampolino per crescere e affermarsi nello sport ai massimi livelli. Al centro sportivo di Brembate di Sopra (Bergamo) il disco è gelido di questi tempi. Ma basta immergerlo nell’acqua calda per ridare a Tapia quel sorriso inconfondibile con cui si alza e va a dormire felice ogni giorno. Il tepore che sprigiona nelle sue mani possenti il disco riscaldato dà il via a quella rotazione tipica che culmina nel lancio. Sembrano passi di danza. «È vero conferma il suo allenatore e mentore, Guido Sgherzi - non a caso si dice che un buon discobolo è anche un bravo ballerino». E non stupisce dunque allora che la danza sia per Tapia una passione da sempre, un talento che ha messo in luce anche a Ballando con le stelle, la trasmissione televisiva che ha contribuito alla sua fama: «È stata una bella esperienza per dire a tutti i disabili di non arrendersi mai e per far conoscere di più il mondo paralimpico».
La quotidianità invece è fatta di tanto sudore. Si allena dalle sei alle nove ore al giorno ed è questo il segreto a 42 anni delle sue vittorie. Nel 2018 ha fatto un ulteriore balzo in avanti riconfermandosi campione europeo del disco portando il primato mondiale (già suo) a 46,07 metri. Agli Europei si è anche preso la medaglia d’oro nel peso ad arricchire un palmarés in cui spicca l’argento nel disco ai Giochi paralimpici di Rio del 2016. Una carriera folgorante e in continua ascesa sebbene l’appassionante autobiografia uscita di recente Più forte del buio. Niente può fermare i sogni (HarperCollins, pagine 232, euro 18) cominci con una sconfitta: il tredicesimo posto ai Mondiali del 2015: «Per me le sconfitte sono l’anticamera delle vittorie, l’input per guardarsi dentro e ripartire di slancio». Lui del resto è uno sportivo sin da quando era bambino: «Non è stata facile la mia infanzia a L’Avana. Sono cresciuto in un quartiere in cui dovevi fare i conti con la malavita e praticare sport era necessario per difenderti: così ho cominciato col pugilato. Vengo da una famiglia numerosa e sin da piccoli abbiamo dovuto lavorare. Ma posso dire solo grazie ai miei genitori perché in quel contesto difficile sono riusciti a tirarci su come persone oneste senza mai cedere alla violenza: siamo stati tra i pochi di quel quartiere a non vedere le sbarre della prigione». A Cuba giocava anche a baseball, sport che ha continuato al suo arrivo in Italia nel 2003 prima di cimentarsi anche nel rugby.
Ma la sua professione è sempre stata quella di giardiniere e sarà proprio un incidente sul lavoro a stravolgergli la vita: nel 2011 mentre potava un albero molto alto viene colpito in pieno volto da un grosso tronco. La corsa in ospedale si conclude con un referto spietato: Oney non potrà più vedere. «Ricorderò sempre quel dolore atroce: al Niguarda di Milano ho subìto otto interventi per occhio. Di colpo tutto intorno a me divenne scuro come un unico sonno senza fine. All’inizio non è stato facile. Poi ho capito che dovevo reagire e andare oltre». Così giorno dopo giorno è venuta fuori la tempra del guerriero capace di sconfiggere anche il buio «addomesticandolo ». Decisiva allora è stata anche la chiesa: «Era il luogo del conforto dove sfogavo il mio dolore, mi accorgevo di uscirne più leggero e mi aiutava a non trasmettere negatività agli altri. Ascoltavo anche la Messa imparavo le canzoni, poi tornavo a casa le cantavo nel buio; le usavo per tenere lontane le paure. Devo ringraziare anche a mia madre, la mia compagna e la sua famiglia che sono molto cattolici». Lo sport è stato uno straordinario volano, anche se in pedana ci è arrivato quasi per caso: «Non sono stato io a scegliere il disco, ma è stato lui a scegliere me. La Omero Bergamo la società con cui mi allenavo in quel periodo nel judo mi ha suggerito di provare con i lanci ed è stato un colpo di fulmine anche grazie al miglior allenatore in circolazione ». Sgherzi si schermisce: «A fare la differenza è stata la sua determinazione: ce l’avessero tanti atleti normodotati avremmo molti più campioni».
Dietro ogni successo c’è serietà e lavoro per questo è difficile per Tapia scegliere quale sia il più importante: «Ciò che conta è aver vinto la sfida più grande, quella con me stesso e il mio limite. Ma non mi sento Superman. Mi ispiro invece a san Francesco d’Assisi. Vorrei dire a tutti che una luce in fondo al tunnel può sempre accendersi e illuminare il nostro cammino. Per questo vado nelle scuole. Ai ragazzi dico che la vita ti mette alla prova, ma nonostante sconfitte e cadute bisogna lottare e mettersi in gioco per ottenere dei risultati. Chi si arrende, perde prima di cominciare. Todo en la vita se puede: basta volerlo». Non c’è spazio per i rimpianti: «Certo l’ultima mia figlia è nata poco dopo l’incidente. Per un papà essere privato della gioia di guardare mia figlia negli occhi, di vederla muovere i primi passi nel mondo, è stato un boccone durissimo da mandare giù. Ma il suo arrivo è stato comunque una spinta a reagire. E anche con le altre due figlie ciò che non ho potuto fare più da non vedente l’ho compensato con altro. Le mie tre figlie sono oggi i miei occhi nel mondo».
Lo dice con quel sorriso che non lascia scampo a dubbi: «Mi sento anche fortunato rispetto a tanti disabili. La vista a volte può essere un limite, perché non ti fa andare oltre le apparenze. Io ho perso gli occhi ma non la capacità di vedere col cuore. E il sorriso o una risata ha un potere grande: butta giù i muri. Scherzo anche su me stesso, altrimenti tanti avrebbero paura di interagire con me. Per cui sono io il primo a dire “Ci vediamo dopo” o “Dove sei che non ti vedo” “Ragazzi vi vedo bene oggi”... Se c’è infatti qualcosa che non sopporto è il pietismo». La strada dei sogni porta ora a Tokyo 2020: «Ma prima ci sono i mondiali a Dubai l’anno prossimo. Un obiettivo per volta. Grazie allo sport riesci a tirare fuori tutte le virtù. Spesso invece ci facciamo paranoie inutili. Oggi posso dire che ciò che ho vissuto non è stata una tragedia, ma una benedizione. È questo il regalo più bello che mi ha fatto la vita: mi ha insegnato a coltivare la forza e la speranza. E mi ha dato la prova che si può anche ballare al buio ed essere felici, sapendo che in quel buio risplendono le stelle».