Un fermo immagine del docu-film su Ermanno Olmi
Il senso della vita è nel primo sguardo che si scambiano due innamorati. E nel caso del regista Ermanno Olmi, è stato lo sguardo d’amore dei suoi genitori da cui è sicuramente scaturito quello che lui chiama il «bigbang» di tutta un’esistenza. Pensieri e parole di un grande autore del cinema, scritte a macchina e riportate da Marco Manzoni nel libro intervista Il primo sguardo (Bompiani) e ora condensate nei 54 minuti nell’omonimo docufilm presentato lunedì sera in anteprima (al Centro Culturale San Fedele di Milano) in occasione dei cinque anni della morte di Olmi (nato nel 1931 se ne è andato il 7 maggio 2018) Il primo sguardo ha commosso fino alle lacrime persino i politici presenti, fatto sorridere ed emozionare i vecchi amici storici del cineasta milanese come l’artista Arnaldo Pomodoro (classe 1926). Piovono pietre di saggezza da questo documentario prezioso in ogni singola pietruzza sapienziale che Olmi rilancia indietro a Marco Manzoni, artista senza centro di gravità permanente e narratore, anche per immagini, che dopo aver scavato nelle anime belle e «affini» di personaggi come il maestro Carlo Maria Giulini (unico docufilm biografico, RSI, 1999), il poeta Franco Loi e il massimo scriba di sport e non solo Gianni Mura (splendido il suo confidenziale Tanti amori, Feltrinelli), chiude il cerchio magico con questo incontro ravvicinatissimo con un gigante della settima arte, ma soprattutto un uomo illuminato dallo sguardo rivolto sempre al di là delle nuvole.
Dal buen retiro di Asiago (vicino alle case che furono dei sodali Mario Rigoni Stern e Tullio Kezich), Olmi si racconta con la solita profonda leggerezza, da ultimo artigiano della bottega di celluloide. E lo fa ben stuzzicato dalle «domandine difficili» di Manzoni alle quali risponde con lo stesso disincanto e lo sguardo curioso del bambino che si arrampicava sul tavolo fatto a mano apposta dal falegname di Asiago per il nonno.«Torniamo ad amare le cose che hanno valore e non le cose che ci vendono perché sono da buttare via, così veniamo offesi credendo di fare un buon affare». Marco Manzoni alla fine delle riprese è rapito dalla stessa sensazione che Il primo sguardo suscita nello spettatore: «La profeticità di Olmi». Nella ridda, a volte inutile, di doc costruiti ad arte, a uso e consumo dei festival fastfood e delle sagre rassegnate, questo film (camera fissa in un vecchio “tinello marron”, canterebbe Paolo Conte) si guarda e si ascolta come una preghiera laica. La stessa che per Sant’Agostino è insita nel canto. Manzoni partendo da Cantando dietro ai paraventi (film di Olmi del 2003) ricorda il canto delle donne e quella citazione del regista: «Quando il cuore delle donne canta è un bellissimo segno di pace» Forse l’assenza di pace e le continue guerre scatenate dall’uomo sono anche la conseguenza del silenzio assordante di un mondo che non canta più.
«Questi popoli che noi occidentali consideriamo chissà perché arretrati, cantano felici». ammonisce Olmi che dell’orrore della Seconda guerra «che fu davvero Mondiale, con le sue leggi razziali e le sue atrocità che non risparmiavano più i civili», ricorda quando da una Milano dilaniata dai bombardamenti sfollò a Treviglio nella quiete della cascina della nonna. «Una chioccia la nonna, che proteggeva le figlie rimaste sole, avevano tutte i mariti al fronte. Io ricordo che appena finita la cena una zia sparecchiava e lavava i piatti e cominciava a cantare. E le altre zie gli andavano dietro in coro, facendo il controcanto, fino a quando noi bambini tentennavamo per il sonno e con un segno della croce e un rosario si andava a dormire. Il canto era un modo di pregare. La preghiera come voglia di vivere e speranza nel domani per una ritrovata armonia dopo tanta miseria. Oggi che stiamo tutti bene non canta più nessuno». L’uomo contemporaneo, il milanese in primis, non conosce più la magia della nebbia, grazie alla quale Olmi trovò la cascina giusta per il set de L’albero degli zoccoli con cui vinse la Palma d’oro a Cannes, nel 1978.
Misteri del cinema, come quel bistrot di Parigi dove ha ambientato La leggenda del Santo bevitore. «Serviva il bar che guardasse la chiesa di Santa Maria di Batignolles. Quel bar dove Joseph Roth andava a bere Pernaux e assenzio era chiuso per trasferimento di proprietà, ma abbiamo trattato e ci siamo trovati padroni del locale per tutta la durata del film. Che sia stato Roth? Probabilmente». Dai misteri del mestiere del cineasta a quelli della fede, di quello che si è sempre definito fino all’ultimo respiro, un «uomo in cerca». E nel suo viaggio spirituale aveva chiesto di essere idealmente accompagnato da Cristo e da Tolstoj. «Mai posto la fede come un problema. A chi devo essere grato a Dio del fatto che vivo una vita che mi stupisce continuamente? Io sono grato a quel primo sguardo che mio padre e mio padre si sono scambiati, capendo in quell’istante che si innamoravano l’uno dell’altro. Questa è la mia data di nascita, quel primo sguardo che ha dato origine a tutto il resto». E questo è il sacro? Chiede Manzoni: «Cristo è un testimone di eroicità umana... - continua Olmi - . Io sono un aspirante cristiano, vorrei essere di quel livello, ma per me è irraggiungibile. Non so se avrei il coraggio di farmi mettere in croce. Ma non puoi dire a Cristo, per te è facile, tu sei figlio di Dio, perché lui ti risponde: “No, io sono figlio di una donna, come te. Quanto a Tolstoj è stato lungo tutta la sua vita uno che senza volerlo ha camminato verso Cristo e l’ha trovato, nella morte in quella stazioncina di Astàpovo...
Ma ci sono altri frammenti di Cristo in tante persone ancora oggi. Persone di cui non diamo sufficiente importanza, per via di altre notizie e varietà della sera che è così ricco di veline da velarci la vista». Riflessioni di un fiume in piena, e il fiume è la metafora della vita di Olmi che nel dialogo serrato e sereno con Manzoni confessava di sentirsi ormai «arrivato alla foce», ma con la consapevolezza di chi si era abbeverato «al ruscello montano che è come l’infanzia gioiosa. Poi quello arriva in piano e prende il suo passo e riceve contributi alla sua possanza alla sua forza, fa questo lungo percorso e poi torna al mare. Il sole riscaldando la superficie crea evaporazioni nubi, piove e nevica sulle vette e tutto ricomincia daccapo. Io sono già quasi vicino alla foce, e so certamente che non finirò mai di essere acqua e luce. E mi fa stare bene l’idea che non si disperderanno di me tutte quelle componenti che sono la vita». Una vita vissuta in pienezza con l’umiltà, che è il segno distintivo dei grandi in ogni campo dello scibile, assieme all’umiltà che per Olmi non può prescindere dal «perdono». «Un uomo in ginocchio è più grande di un uomo in piedi. Ma l’uomo spesso si inginocchia solo quando la ragione è più forte del proprio orgoglio. Io credo che pensando all’innamoramento se sono davvero innamorato mi inginocchio volentieri davanti alla mia amata. Potrei inginocchiarmi anche di fronte a un potente prepotente se questo inginocchiarmi davanti a lui cambiasse l’opinione del prepotente, forse l’arma più forte in certe circostanze. Il ragazzo di Tienanmen solo con la sua borsa di plastica si inginocchia davanti ai carriarmati. Un gesto consapevole di questa soglia estrema dove se ti inginocchi sei più forte di quello che sta in piedi».
La Storia, la Resistenza, l’Amore, la difesa del Lavoro, sono i punti cardinali della poetica cinematografica di Olmi, in cui il vissuto e il cinema, fino all’ultimo film Torneranno i prati (altro straordinario monito lasciato ai posteri sulla guerra) s ono servite ad alimentare il Sogno. E la magia dei sogni l’aveva appresa dall’amico Federico Fellini che salito a Milano per presentare la Dolce vita vide Il tempo si è fermato di Olmi e abbracciando il suo «Ermannino» disse: «Da questo momento, io e te siamo fratelli». Il sogno di Fellini era rimasto tra i disegni conservati in cassaforte e ritrovati dopo la morte del regista e su uno di quelli c’era la storia dei “quattro fratellini” che Olmi avrebbe dovuto girare. «Uno scherzone quello di Federico - sorride davanti alla telecamera di Manzoni - . I quattro fratellini devono salvare l’umanità da un pesce bomba caricato con un potenziale distruttivo enorme. Federico si chiede: chi salverà il mondo? Quattro bambini e tutti poi faranno una grande festa. Non è una storia che finisce con la lacrima ma con una grande gioia che è la ragione di tutta l’esistenza» Un’esistenza in cui, come insegna Olmi con Il segreto del bosco vecchio c’è bisogno di un ritorno al dialogo diretto tra l’uomo e la natura e questo filo del discorso interrotto, il regista lo aveva ritrovato.
«A Torino presentando Terra Madre (film del 2009), dei giovani straordinari del Massachusetts mi hanno raccontato dell’orto che coltivano nella loro scuola dicendomi: “Noi saremo la generazione che riconcilierà l’uomo con la terra”. E io ci credo, anzi, ci spero!». Ermanno Olmi è volato via leggero come una nube, cinque anni fa, con questa speranza e lasciando in cambio alle nuove generazioni tanti pezzi di vita attraverso i suoi film (più questo docufilm di Marco Manzoni) che sono dei semi sparsi su tutta la terra.