L’ingresso del rinnovato Museo della Civiltà a Roma, nel quartiere EUR - Courtesy Museo delle Civiltà, Roma / Giorgio Benni
Che cosa significa “civiltà”? Giunti all’ingresso di una delle molte sezioni del rinnovato Museo delle Civiltà di Roma, si viene accolti così… con una domanda che è soprattutto una messa in discussione dei cardini politici e culturali sui cui l’Occidente si è affermato nel resto del mondo. Civiltà come progresso? Civiltà come definizione di un sistema di regole di vita ritenuto superiore, più avanzato rispetto ad altri modelli culturali? Il luogo di cui stiamo parlando, sito all’EUR, è una delle più importanti realtà espositive della capitale, frutto di una recente operazione di riassetto – disposta nel 2016 dall’amministrazione Franceschini – di diverse collezioni etnografiche, storiche e storico- artistiche, tra cui il celebre Museo Pigorini, il Museo d’Arte Orientale Giuseppe Tucci, il Museo dell’Alto Medioevo, il Museo Italo-Africano Ilaria Alpi (già Museo Coloniale), il Museo delle Arti e Tradizioni popolari.
La complessità di questa aggregazione, per molti aspetti problematica e forse incongrua vista l’eterogeneità dei reperti esposti e la storia delle singole raccolte (soprattutto, rimane “corpo estraneo” il pregevole Museo dell’Alto Medioevo, o si pensi alla sezione inaugurata pochi giorni fa della collezione Ispra, dedicata a “animali, vegetali, rocce e minerali”), ha evidenziato da subito la necessità di uno sforzo di interpretazione, tale da fornire forme di dialogo con i visitatori. Tanto più in considerazione delle criticità storico-culturali che sono inevitabilmente connesse alle vicende costitutive di alcuni di questi musei, nati nel secolo scorso (ma il primo nucleo del Pigorini risale al 1876), in parte per accogliere oggetti provenienti da pionieristiche campagne di esplorazione e di studio, ma anche da imprese belliche e da politiche coloniali.
La riconfigurazione di tali raccolte non poteva sottrarsi ad un lavoro di attualizzazione e di revisione dei modelli che le avevano ispirate: ed è proprio intorno al concetto evoluzionistico di “civiltà” che ruota gran parte della questione, ovvero all’idea che popoli dominanti possano sottometterne altri in nome di un presunto avanzamento nella tecnica e negli stili di vita. Ragionare sui principi che hanno guidato, e colpevolmente giustificato, le imprese di conquista di popoli spesso indifesi e vulnerabili, diviene oggi una urgenza che è al tempo stesso culturale, storica e umanitaria: è questo uno dei percorsi che, tra tante incertezze e problematicità, possono condurre alla cosiddetta decolonizzazione dei patrimoni.
Con queste premesse, la direzione del Mu-Civ di Roma ha intrapreso con la sua riapertura un processo coraggioso «di progressiva e radicale revisione» che punta a riscrivere «la sua storia, la sua ideologia istituzionale e le sue metodologie di ricerca e pedagogiche». Uno sforzo necessario anche per ricontestualizzare le raccolte dell’ex museo coloniale, istituito nel 1923 e divenuto nel 1935 museo dell’Africa italiana, poi smembrato e man mano caduto nell’oblio. E appare interessante analizzare le strategie prescelte per avviare una trasformazione che, per ottenere risultati concreti, comporterà un lavoro sistematico e di lungo periodo.
Oltre all’ammodernamento progressivo delle sale espositive, al momento particolarmente evidente soprattutto nella valorizzazione del Pigorini – troppo a lungo mortificato da un allestimento del tutto anacronistico – il museo ha scelto innanzitutto di “parlare” al suo pubblico: lo fa attraverso didascalie interpretative molto articolate, ma anche avvalendosi della mediazione di interventi critici sviluppati da artisti residenti, provenienti dalle «altre aree del mondo» (Congo, Brasile, Palestina, Colombia, Australia), che offrono un sguardo altro e post-coloniale sul patrimonio di un museo così fortemente influenzato dall’eurocentrismo. Non possono sfuggire i “termosifoni parlanti” dell’antropologa Elizabeth Povinelli, dipinti di giallo e di nero e portatori di testimonianze allarmate sul futuro della specie umana e del pianeta Terra, firmate Aimé Cesaire, Denise Ferreira Da Silva, Kim Tallbear.
Il museo riconfigurato cerca così di assumere coerenza e identità, raccontando una “storia dell’Antropocene” che si sviluppa su almeno due canali di conflitto: quello degli uomini dominatori di altri uomini e quello degli uomini dominatori del pianeta. I temi sviluppati sono quelli più problematici: la decolonizzazione, l’equilibrio tra popoli e culture, la crisi climatica che significa soprattutto riflessione sul destino dell’umanità e sul recupero tra natura e cultura.
Opere acquistate o prodotte per questo luogo espositivo affrontano il tema dell’identità dei popoli e della sostenibilità (in senso lato), ma anche della riconciliazione e del riconoscimento tra le diversità. Come spesso accade nei musei memoriali, si affida all’arte contemporanea (il direttore è Andrea Viliani, già alla guida del Madre di Napoli) il compito di tradurre il messaggio etico e di accompagnarlo verso la coscienza dei visitatori, per lo più riportando le grandi questioni al vissuto dei singoli: come nel caso della mostra Comment un petit chasseur païen devient Prêtre Catholique del congolese Georges Senga che attraverso la vicenda del gesuita Bonaventure Salumu, affronta il controverso rapporto tra cultura occidentale, fede e ritorno alle origini; o in quello del docufilm di Ali Cherri (The Digger, 2015), che mostra – in 25 minuti di silenzio, luce abbagliante e solitudine – la vicenda di Zeib Khan, per venti anni paziente custode del sito neolitico di Jebel Al Behais, situato nel deserto degli Emirati Arabi Uniti. L’opera, in lingua pashtu e araba con sottotitoli in inglese, accompagna le sale delle collezioni preistoriche; nelle intenzioni dei curatori, propone «un momento di riflessione condivisa sul concetto di civiltà, a partire da materie e autori della sua fondazione e, più in generale, sull’era antropogenica e la sua musealizzazione contemporanea».
La sperimentazione del MuCiv appare importante e ha conquistato un giusto consenso; tuttavia, è opportuno avanzare due rispettosi suggerimenti. Il primo riguarda l’attenzione al pubblico non esperto, verso il quale la trasmissione di certi messaggi richiederebbe uno sforzo di maggiore accessibilità. Le suggestioni proposte, gli agganci alla contemporaneità, le intense citazioni dei “termosifoni parlanti” (per lo più in lingua inglese) risultano di grande impatto, ma presuppongono una consapevolezza pregressa che difficilmente il visitatore medio possiede (a distanza di decenni, fa piacere rilevare come il Pigorini abbia mantenuto il suo potere attrattivo verso famiglie e scolaresche).
La grande occasione per un museo che decide di intraprendere una tale sfida consiste, a mio avviso, nel fornire ai propri pubblici gli strumenti per maturare coscienza politica e desiderio di partecipazione. Il secondo suggerimento è rivolto all’uso che si fa delle collezioni, della loro storia e del loro valore culturale: l’elaborazione di una lettura onesta, autoriflessiva, non dovrebbe prevaricare la valorizzazione dei patrimoni e la loro contestualizzazione. Si rischia, in un’operazione fortemente centrata sul «ripensamento radicale», di trasformare i materiali esposti in strumenti di una pacificazione con il passato che può scivolare verso una nuova forma di colonizzazione, cioè in un travisamento di beni che appartengono ad altre culture e che il grande pubblico continua a non apprezzare se non nella loro alterità (ora esposta come ferita e non sottomessa, ma ancora privata del suo significato e delle sue radici). Il ripensamento del Museo delle Civiltà rappresenta senza dubbio una straordinaria, entusiasmante, opportunità di crescita per i cittadini e per i pubblici dei musei, ma anche per la comunità degli studiosi che è chiamata a elaborarne nuove interpretazioni. Un confronto interdisciplinare sul percorso intrapreso potrebbe ulteriormente arricchire gli stimoli di una proposta che merita incoraggiamento e piena attenzione.