Davanti al dolore, all’improvviso, si smette di essere qualcos’altro e si resta soli con se stessi. Una madre è una madre e basta, un padre niente più di un padre. Ogni altro ruolo viene cancellato, non importa quanto possa apparire prestigioso o ambìto. Succede anche in One More Time with Feeling (“Ancora una volta con sentimento”), il film che il regista neozelandese Andrew Dominik ha realizzato durante la lavorazione di Skeleton Tree, il nuovo album di Nick Cave and The Bad Seeds: girato in 3D, il documentario sarà nei cinema il 27 e il 28 settembre su iniziativa di Nexo Digital (per l’elenco completo delle sale www.nexodigital.it).
Il momento della verità arriva più o meno a metà del film, quando Susie Bick, la moglie di Cave, offre alla cinepresa un grande disegno incorniciato: «Non devo piangere», mormora a se stessa. Lei sta in piedi e il marito, seduto al tavolo sul quale il quadro viene appoggiato, solleva lo sguardo d’istinto, come se non potesse farne a meno. Sa già che cosa sta per essere raccontato, forse sa anche che al termine del racconto toccherà a lui prendere in mano il disegno e decidere dove sistemarlo. Su una sedia magari, oppure per terra. A questo punto non fa più differenza. Nick Cave non è più un musicista affermato, non è più il cantante che negli anni Novanta duettava, invidiatissimo, con la popstar Kylie Minogue: è soltanto un padre che non sa più se mostrare o nascondere il disegno del figlio morto.
E anche di Susie non contano più la bellezza né l’eleganza dell’abito di cui lei stessa è stilista. È solo una madre che ha appena provato a spiegare l’inspiegabile. Quel disegno Arthur lo aveva fatto quando aveva cinque o sei anni, dice la donna, e rappresenta il posto in cui è morto. «Non so perché la cornice sia nera – aggiunge –, di solito sono molto superstiziosa in questo genere di cose. Non so perché sia nera, davvero». Poco prima è stato lo stesso Nick Cave a sottolinearlo: «Mia moglie crede che le mie canzoni abbia questo potere di... di prevedere che cosa accadrà. Lei lo crede veramente».
Arthur Cave è precipitato da una scogliera vicino a Brighton, la città dell’Inghilterra meridionale dove i Cave vivono da tempo, il 14 luglio del 2015. Aveva quindici anni. Le circostanze dell’incidente non sono mai state chiarite. A un certo punto si è fatta l’ipotesi (mai confermata né smentita) che il ragazzo fosse sotto l’influsso di allucinogeni, ma di questo nel film non si fa cenno.
Neppure la morte di Arthur è mai richiamata in modo del tutto esplicito, del resto, e quando negli studi di registrazione appare suo fratello gemello, Earl, nessuna spiegazione viene fornita. Gli appassionati sanno già quello che c’è da sapere, chiaro, ma il punto non è questo. Quando si partecipa a una commemorazione non si fanno le presentazioni. Chi non conosce la famiglia cerca di ricostruire i rapporti di parentela valutando le somiglianze dei volti (Earl, come Arthur, è il ritratto del padre, ingentilito però dai tratti della madre) e spiando i gesti. Gli abbracci, le carezze, gli slanci esibiti e trattenuti.
Interrogato dal regista – con il quale aveva già collaborato una decina di anni fa, all’epoca di L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford – Nick Cave ammette che, con il passare del tempo, le sue canzoni hanno un impianto narrativo sempre meno riconoscibile. In Jesus Alone, che di Skeleton Tree costituisce la prima traccia, l’unico elemento che sembra ricondurre a unità schegge di immagini altrimenti disparate è rappresentato dal ritornello: «With my voice / I am calling you», “con la mia voce / ti sto chiamando”. In un altro brano, Girl in Amber, il filo è ancora più tenue: un telefono che continua a suonare mentre nessuno risponde, fino a quando anche il telefono smette.
«Non penso più che la nostra vita possa essere raccontata come si racconta una storia», insiste Nick Cave commentando quello che lui stesso definisce “il trauma”. Sarà anche per questo che il suo ultimo libro, The Sick Bag Song (traduzione di Chiara Spaziani, Bompiani, pagine 176, euro 17,00) non assomiglia neppure vagamente ai romanzi sperimentali pubblicati in passato dall’artista australiano. Esattamente come One More Time with Feeling , a essere descritto è lo stesso processo creativo, che nel caso specifico prende le mosse dagli appunti presi sui sick bags, i sacchetti per il mal d’aria trafugati dall’autore durante i frequenti viaggi in aereo. Il libro è una rivisitazione in chiave visionaria del mito classico delle Muse, nel film sono le forme del lutto a occupare per intero lo schermo. Nick Cave confessa di non sopportare la consolazione a buon mercato di chi gli ripete che Arthur, adesso, vive nel suo cuore. «Certo che è nel mio cuore – replica –. Ma non è vivo».
Conosciuto per il misticismo a volte esasperato di molti suoi testi (si pensi, in Skeleton Tree, alla ricorsività ipnotica di Magneto), Nick Cave non può essere considerato un artista religioso in senso stretto. Semmai è uno dei molti che, in questi anni contraddittori, non è riuscito e non riesce a evitare che la propria inquietudine si esprima con un linguaggio religioso. Senza scorciatoie, però. Senza cercare facili vie d’uscita. Quella che prospetta alla fine del film, a ben vedere, è assai meno semplice da percorrere di quanto potrebbe sembrare: «Susie e io abbiamo scelto di essere felici», dice. È quello che provano a fare tutti i padri e tutte le madri quando i figli li lasciano orfani.